sabato 12 settembre 2015

Il negazionismo. Storia di una menzogna di Claudio Vercelli (Editori Laterza, Roma-Bari 2013)






Claudio Vercelli, ricercatore di Storia contemporanea, presso l’Istituto di studi storici "Gaetano Salvemini" di Torino, nel suo libro Il negazionismo. Storia di una menzogna (Editori Laterza, Roma-Bari 2013), ci propone una sorta di paradosso: prova a ricostruire la storia dei negatori della storia. Lo fa con grande abilità e chiarezza, usando un vocabolario accessibile a tutti: le pagine scorrono veloci e anche il lettore più profano non trova inciampi nella lettura. Oggi il negazionismo ha già una sua storia con diversi autori e varie correnti di pensiero che hanno una ricaduta mediatica sempre più vasta, grazie soprattutto alla diffusione in rete. Ma che cos’è, in sintesi, il negazionismo? Secondo Vercelli, il negazionismo olocaustico non è altro che “un insieme di affermazioni nelle quali si contesta o si nega la realtà del genocidio sistematico degli ebrei perpetrato dai nazisti, e dai loro complici, nel corso della Seconda guerra mondiale”. Nel suo libro, Vercelli dapprima delinea il metodo negazionista e la sua struttura logica, poi presenta lo sviluppo del negazionismo e i suoi prodromi nei diversi Paesi: dagli Stati Uniti alla Francia, dall’Italia ai Paesi arabi e mussulmani, facendo via via i distinguo tra negazionismo, revisionismo, riduzionismo e sterminazionismo, termini che dipendono dal punto di vista dell’autore. A questo proposito, è  istruttivo cogliere le differenze che ci possono essere tra le stesse voci negazioniste che si sono succedute nel corso dei decenni a seconda dei Paesi di riferimento. Nonostante le diverse sfumature e approcci che caratterizzano le ormai tante voci negazioniste, sono sostanzialmente tre i punti della  - per loro – “versione ufficiale della storia” ad essere  negati: 1) l’esistenza delle camere e gas e forni crematori in quanto impossibili “tecnicamente”; 2) il numero di 6 milioni di morti (quei “pochi”che vi sarebbero stati sarebbero morti per malattia e deperimento; 3) mancanza di documenti scritti che possano provare le intenzioni dello sterminio degli Ebrei e la sua progettualità da parte dei tedeschi. Per i negazionisti, è stata la propaganda dei vincitori  - per alcuni coadiuvata dagli stessi ebrei sionisti - ad aver messo in giro questa "versione" e costretto gli stessi testimoni di Norimberga a supportarla. Persino il diario del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss (pubblicato nel 1960 da Einaudi col titolo Comandante ad Auschwitz e oggi ancora diffuso nelle librerie) non è attendibile per i negazionisti, in quanto proveniente da un ufficiale vinto processato a Norimberga. Le stesse testimonianze dei sopravvissuti sono per loro inaffidabili, non solo perché interessate, ma anche perché contraddittorie. E il Diario di Anna Frank? Un altro falso clamoroso! Uno dei primi negazionisti, Paul Rassinier, è invece il loro "vero" testimone, perché è stato “deportato per motivi politici a Buchenwald e Dora”: lui sa, lui ha veramente visto! Peccato, però, che egli “non entrò mai a contatto con i campi di sterminio operanti nella Polonia occupata” - particolare che, ovviamente, non viene messo in evidenza dai negazionisti. Perché questa è la loro tecnica: decontestualizzare, concentrarsi su un particolare, evidenziare delle contraddizioni, omettere dati che confuterebbero la “dimostrazione” e continuare in modo quasi ossessivo a ripetere le stesse argomentazioni, senza mai avere una visione di insieme. In questo modo ecco per i negazionisti svelata "la grande menzogna sionista" che ha voluto creare il "mito" dell’Olocausto a difesa dello Stato di Israele. E si arriva così al vero nervo scoperto: la legittimazione dello Stato di Israele. Scrive Vercelli: “Un ultimo passaggio, oggi senz’altro il più importante, è quello che riconduce il negazionismo alla riviviscenza dell’antisemitismo. Il nodo è la presenza dello Stato di Israele che ha concorso ad alimentare, ma anche a modificare, l’impianto degli stereotipi antigiudaici. L’attribuzione ad esso della colpa di avere generato un falso clamoroso, lo sterminio, a proprio beneficio, serve a decolpevolizzare le ideologie antisemite”. Proprio perché la Shoah sta ormai diventando per molti giovani, e non solo, una "leggenda metropolitana", è dovere di tutti non abbassare mai la guardia. Claudio Vercelli ci offre, al riguardo, un strumento utilissimo.

Questo articolo è stato pubblicato da Verona Fedele, 26 gennaio 2014.

CRONACHE DI GERUSALEMME di Guy Delisle (Rizzoli 2013)







Cronache di Gerusalemme (Rizzoli Lizard 2013) è il racconto di un anno trascorso a Gerusalemme Est, iniziato nell’agosto 2008 e terminato nel luglio 2009, scritto e disegnato dal canadese Guy Delisle. Classe 1966, Delisle è un celebre e affermato fumettista del Graphic Journalism: il reportage a fumetti, con la cui formula ha già pubblicato Shenzhen (2001), Pyongyang (2003) e Cronache Birmane (2007), editi in Italia da Fusi Orari. Dopo l’Asia, Delisle è approdato a Gerusalemme Est dove, per accompagnare la moglie Nadège, impegnata in una missione umanitaria di Medecins Sans Frontières (MSF) a Gaza, ha trascorso un intero anno nel quartiere arabo a Bet Hanina. Da questa prospettiva, racconta la “sua” Gerusalemme: città che non conosce e che scopre giorno dopo giorno, diventando testimone, quasi per caso, del conflitto mediorientale per eccellenza. E, quasi per caso, si troverà ad essere spettatore indiretto dell’operazione israeliana denominata Piombo Fuso (27 dicembre 2008 - 18 gennaio 2009). Senza la pretesa di offrire un punto di vista assoluto, Delisle ci propone una narrazione autobiografica che mette insieme un po’ del racconto di viaggio e della cronaca sociale ma che non può non diventare – suo malgrado -  un punto di vista anche politico. Tuttavia il suo sguardo è quello del turista “privilegiato”, che ha tutto il tempo, figli piccoli permettendo, di andarsene in giro a visitare la città. A Gerusalemme, le tracce del conflitto sono ovunque e qualsiasi aspetto o situazione può offrire una lettura cosiddetta “di parte”. Eppure, il suo punto di vista di laico, ateo non-pellegrino, non-attivista, lo ha aiutato a mettere sulla carta un reportage a fumetti asciutto, chiaro e scorrevole che via via chiarisce (o interpreta?) i termini e le questioni del conflitto. In veste di viaggiatore, chiede, annota, disegna ciò che vede e osserva riuscendo alla fine a raccontare una complessità di vita e di luoghi con un linguaggio accessibile a tutti. Gli stessi colori scelti per il fumetto, i toni di grigio, i beige, i rosati ci restituiscono non solo la pietra chiara di Gerusalemme, ma anche la durezza e insieme il fascino gerosolimitano. Con lui, vediamo la desolazione di Gerusalemme Est, in netto contrasto con Gerusalemme Ovest, sempre più presente anche nella parte araba. Ma già nel volo verso Tel Aviv, Delisle legge i segni e le ferite che porta in sé Gerusalemme: la figlioletta è presa in braccio da un sopravvissuto ai campi di sterminio - il numero impresso nella pelle è chiaro e non lascia adito a dubbi. Lo stesso quartiere arabo di Bet Hanina, a Gerusalemme Est, dove la famiglia prende casa, è dentro la ferita della storia ancora aperta. Delisle lo nota grazie a un’operatrice di MSF che gli spiega che si tratta di un villaggio arabo che è stato annesso nel ‘67 in seguito alla guerra dei 6 giorni a nord della città vecchia: “per il governo israeliano siamo in Israele, questo è certo, ma per la comunità internazionale che non riconosce la spartizione fatta nel ‘67, ci troviamo in Cisgiordania, quella che dovrebbe diventare la Palestina (se mai accadrà)”. La stesso discorso vale per Gerusalemme capitale dello Stato di Israele: “Per la comunità internazionale è Tel Aviv, dove ci sono tutte le ambasciate. Ma per Israele è Gerusalemme. La Knesset (il parlamento), è qui non a Tel Aviv.” Il ritmo del conflitto palese o nascosto scorre lungo tutta la narrazione. Dai luoghi sacri e prosaici che visita, dalle persone che incontra, dalle situazioni incandescenti che si offrono allo spettatore straniero, come quando giunge, accompagnato da due anziane signore, a Qualandiya: le donne lavorano per l’organizzazione israeliana Machom Watch, nata per sorvegliare la situazione creata dal muro di separazione. Eppure i due popoli sembrano destinati a convivere, al di là delle pretese o dei desideri giusti o sbagliati di ciascuno. Da uno dei tanti tg israeliani, Delisle annota:Al tg della sera il primo ministro dimissionario israeliano Ehud Olmert dichiara, qualche giorno prima del termine del proprio incarico: “L’idea della grande Israele non esiste più, e chiunque vi creda ancora è un illuso. Ormai qui vivono tanti popoli diversi!”.

Questo articolo è stato pubblicato da Verona Fedele, 1 giugno 2014. 

GERUSALEMME SENZA DIO di Paola Caridi (Feltrinelli 2013)



Paola Caridi
Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele 
Feltrinelli, 2013 pagg. 202 




"Mio figlio, a tredici anni, mi ha detto: Tu sai meglio di me la storia di Gerusalemme, ma io l'ho vissuta di più, sulla mia pelle" . Così termina il libro di Paola Caridi, Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli, Milano 2013), lontanissimo da cliché e stereotipi. Classe 1961, Paola Caridi ha vissuto per dieci anni a Gerusalemme dove ha lavorato come giornalista, occupandosi di Medio Oriente, in particolare di islam politico in Palestina ed Egitto. Ha pubblicato, sempre presso Feltrinelli, Arabi invisibili (2007), Hamas. Che cos’è e cosa conosciamo (2010); continua a curare il blog Invisiblearabs nato dal suo desiderio di “dare voce e corpo a un pezzo di mondo che voce ne ha poca”. Proprio perché ha donato a Gerusalemme dieci anni della sua vita, Paola Caridi sa che si tratta di materiale da maneggiare con cura: impossibile, dunque, scrivere un libro su Gerusalemme; possibile scrivere, invece, un libro sulla propria Gerusalemme. Uno sguardo che le viene da quella città che ha conosciuto per averci camminato, lavorato, studiato, una particolare prospettiva la sua, che ha maturato proprio da quel pezzo di vita vissuto con la sua famiglia: perché un figlio piccolo impone uno sguardo di madre sulla città e obbliga a un’esperienza diretta e concreta dei mille aspetti del quotidiano, spesso estranei allo studioso chino sui libri o all’attivista totalmente immerso nella propria missione. Un titolo che può sembrare provocatorio per la città tre volte Santa. Eppure è qualcosa di intimo e di spirituale che le è rimasto dentro, una volta partita da Gerusalemme: il ritmo dei tempi del giorno scandito dai “suoni di cui la città è piena”; la nostalgia di quel ritmo antico più consono a una natura “che abbiamo violentato con gli anni e coi secoli”.
Lo sguardo dell’autrice segue le riflessioni del semiologo Roland Barthes: se ogni città è un discorso con i suoi significati e significanti, di forme e di senso, per capirlo è necessario destrutturarlo, decodificarlo, e l’architettura urbana ben si offre a questo tipo di lettura. Da questo approccio, prendono inizio i suoi primi passi per raccontare Gerusalemme. Passi che ripercorrono la città partendo dal quartiere di Musrara, primo quartiere misto sorto fuori dalle mura della città vecchia durante il mandato britannico, dove la casa del vecchio arabo cristiano che l’accompagna è stata trasformata, durante la riqualificazione urbanistica degli anni settanta (avvenuta a seguito delle proteste scatenate dagli ebrei sefarditi costretti a vivere in una Musrara degradata), in una mikveh (bagno rituale). Quella casa trasformata è la strada della memoria per l’anziano esule costretto fuggire a Beirut nel ‘48: uno spartiacque storico - la nascita dello Stato di Israele o la Nakba, in lingua araba (la “Catastrofe”): come sempre, in questa terra ferita, i nomi dipendono dall’angolazione. Ora nel quartiere non vi è più nulla di arabo, resta solo la scuola salesiana “simulacro della presenza cristiana, riconquistata dopo una lunga battaglia legale”. Eppure il cipresso, tanto caro all’anziano accompagnatore, è ancora lì, vivido nella sua memoria.
Ma a Gerusalemme i segni da leggere sono sparsi ovunque: tracce di una presenza araba dove possibile rimossa o segni di una Gerusalemme israeliana moderna che si continua a costruire e a costruirsi, creando un arcipelago di enclave e di isole. Una città dove anche l’archeologia è “pietra” politica, perché a Gerusalemme nessuna pietra può rimanere estranea al conflitto. Ogni pietra è un segno da decifrare in questa Gerusalemme senza dio, eppure “quella Via Dolorosa così prosaica, […]  è quanto di più simile alla descrizione del Vangelo si possa rintracciare nella Gerusalemme post-moderna. È il segno della solitudine e della passione del Cristo in una dimensione quotidiana della città: così come ai tempi del Gesù storico, il Cristo era stato egli stesso condotto nella sua Via Dolorosa tra i banchi del mercato, esposto al pubblico ludibrio, proprio nei luoghi in cui il maggior numero di persone potesse assistere alla sua umiliazione”.


Questo articolo è stato pubblicato da Verona Fedele, 6 luglio 2014.

IL TEMPO DALLA MIA PARTE di Mohamed Ba (San Paolo 2013)



Mohamed Ba, Il tempo dalla mia parte, San Paolo, 2014 pagg. 140  



Il tempo dalla mia parte (San Paolo 2013) è un romanzo autobiografico di Mohamed Ba, autore teatrale e musicista, che racconta la propria esperienza di emigrante clandestino in Europa. Senegalese, classe 1963, nato a Dakar, Ba, spinto dal bisogno di costruirsi un futuro, approda prima in Francia (la sua madre/matrigna coloniale) e poi in Italia: si stabilisce a Milano, dove lavora come mediatore culturale. Il tempo dalla mia parte è il suo primo libro scritto in italiano ed è dedicato alla madre che non ha più potuto riabbracciare. La storia è simile a mille altre storie e concorre a creare un Canto Universale del Grande Esodo. È Ba stesso, musulmano, a riprendere l’immagine biblica degli Ebrei cacciati dalla Terra di Egitto. Come allora, anche oggi vi è un mare da attraversare, il mare nostrum del Mediterraneo divenuto per Ba, ma non solo, il “cimitero nostro” dove non si finiscono più di contare le migliaia e migliaia di corpi: uomini, donne bambini che non sono riusciti a raggiungere la tanto agognata Terra Promessa (dal 1988 sembra che le persone inghiottite dalle acque siano state circa 25.000, difficile avere un numero preciso).

Il racconto si apre con la grande figura del nonno di Amed protagonista e voce narrante della storia: “Il nonno era la coscienza di un’Africa che non c’era più, ma che ugualmente stava alle mie radici" - radici senza le quali è impensabile la sua identità africana: è la figura patriarcale del nonno a richiamarle sin dall’inizio del racconto. All’aeroporto di Dakar, dove l’anziano si è recato ad accompagnare il nipote Amed, in partenza per l’Europa, un controllore chiede di esibire un documento di identità; il vecchio, dopo essere andato su tutte le furie, risponde: “Faresti molto meglio a chiedermi una mappa delle mie radici, perché la mia identità è così complicata da non poter essere rinchiusa in uno dei vostri pezzetti di carta!” La questione dell’identità è centrale nel romanzo: è infatti una nuova identità che cerca il protagonista Amed. Ma quale identità? Come afferrarla? O meglio, come costruirla? Ci vuole tempo ed è proprio con il tempo dalla sua parte che egli potrà costruire, giorno dopo giorno, umiliazione dopo umiliazione, sconforto dopo sconforto, la propria nuova “carta” di identità, senza dimenticare le radici della sua terra di origine, intrise di saggezza e dignità. La spinta a partire per l’Europa gli viene dalla sua gente: una grande siccità ha colpito il piccolo villaggio di Jolof, dove il giovane vive. Già prima di lui, altri sono partiti per andare alla ricerca del tamburo magico che avrebbe messo fine alla siccità. Amed si metterà così sulle tracce di Barin e del tamburo. Dalla Francia all’Italia, passando per Nizza, nascosto nel bagagliaio di una macchina perché ignaro degli accordi di Schengen. A Milano, Amed è accolto da una comunità di africani organizzata su regole ferree, caratterizzata da una certa intransigenza, dettata dalla sopravvivenza. Ma un giorno Amed decide di lasciare quella casa e dopo una serie di vicissitudini dolorose, sceglie di raggiungere Lampedusa. Prima di allora, il lettore non era ancora entrato nel vivo della tragedia: il tono della narrazione è leggero, a volte ironico e senza alcun tipo di vittimismo o di denuncia contro i “cattivi” europei. Al contrario, la voce si interroga, interpella e ci offre nuovi sguardi di interpretazione dei cambiamenti epocali in cui siamo tutti immersi. Ma poco a poco, il tono cambia, si fa più cupo e tragico; il protagonista sente che è giunto il momento di abbandonare la propria storia, per mettersi in ascolto del Grande Esodo: sa che per ridisegnare la sua nuova identità deve dare forma e dignità a tutte quelle persone che hanno lasciato la loro terra.
Giunti a Lampedusa con Amed, in silenzio ci chiniamo per auscultare il battito del suo tamburo perduto. Avvertiamo i colpi delle ferite, ascoltiamo le voci dei morti che ci ricordano– nel caso non ci prestassimo più attenzione - che siamo tutti, tutti, esseri umani.

  
Questo articolo è stato pubblicato da Verona Fedele, 4 maggio 2014.


IN ALTRE PAROLE di Jhumpa Lahiri (Guanda 2015)


Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda 2015

Non sono rarissimi gli autori che hanno deciso di scrivere in una lingua diversa da quella materna: tra loro Joseph Conrad, romanziere polacco che è diventato uno dei narratori più importanti della letteratura inglese; Emile Cioran, saggista rumeno che ha regalato alla letteratura francese perle di pensiero filosofico; Vladimir Nabokov, scrittore russo che ha iniziato a usare la lingua inglese dopo essersi trasferito negli Stati Uniti; ma anche donne come lalgerina Assia Djebar che ha scritto nella lingua del colonizzatore francese e molti altri. Tra questi, non possiamo tralasciare il nostro Antonio Tabucchi che ha scritto Requiem in portoghese, la lingua di cui si è innamorato. Non è quindi un caso se in esergo al libro In altre parole (Guanda 2015) della scrittrice statunitense di origine indiana Jhumpa Lahiri leggiamo le parole di Tabucchi: Avevo bisogno di una lingua differente: una lingua che fosse un luogo di affetto e di riflessione. In altre parole, infatti, è stato pensato e scritto direttamente in italiano, una lingua che Lahiri ha imparato da adulta.
Figlia di emigrati indiani di Calcutta, stabilitisi prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, sin da piccola sa che, se si vuole integrare nel nuovo Paese, deve imparare perfettamente linglese, nonostante a casa si parli solo il bengalese, una lingua che non potrà approfondire perché tutta concentrata a imparare quella della scuola: Nessuna mia maestra a scuola, nessuna mia amica è stata mai incuriosita dal fatto che io parlassi unaltra lingua. Non lo apprezzavano, non mi chiedevano niente. Non gli interessava, come se quella parte di me, quella capacità, non ci fosse. Eppure, nonostante da bambina impari perfettamente linglese, da grande si sentirà ovunque un po straniera: a Calcutta, perché le persone le si rivolgono il più delle volte in inglese e in America, perché tutti la prendono per una straniera a causa del suo aspetto fisico. Tuttavia, sarà proprio negli Stati Uniti che riuscirà ad affermarsi come scrittrice di lingua inglese, ottenendo diversi riconoscimenti tra cui il prestigiosissimo Premio Pullitzer.
In Italia, la sua opera è stata tradotta da Guanda: Una nuova terra (2010) e La moglie (2013) sono solo alcuni dei suoi romanzi, mentre In altre parole rappresenta una totale novità, non solo per lAutrice, ma anche per la stessa casa editrice.
Ma perché questa giovane donna, scrittrice statunitense di successo, che ha già dovuto subire lo sforzo di imparare unaltra lingua, un giorno decide, non solo di scrivere in italiano, ma addirittura di trasferirsi a Roma con marito e figli piccoli? E perché tutto ciò accade senza alcuna motivazione familiare o professionale? Eccola allora, pochi anni fa, approdare a Roma con tutta la famiglia  in pieno ferragosto. Nella capitale, continua lavventura iniziata a Firenze, ventanni prima. Sì, perché è nella città natale di Dante che Lahiri ha vissuto lincontro magico della sua vita: un vero colpo di fulmine per la lingua italiana. Ed è questa la storia damore che ci narra in questo breve racconto scritto in prima persona. Un innamoramento che inizia da una spoliazione e da una perdita: Quando rinuncio allinglese rinuncio alla mia autorevolezza. Sono traballante anziché sicura. Sono debole. La scrittura è autentica e porta con sé la fragilità che la Lahiri ha deciso di indossare. Di vivere. Una scrittrice affermata che percepisce la propria debolezza come una sorgente da cui trarre forza per crescere. Accettare il limite in una società dove i limiti non si possono più nemmeno chiamare per nome: qui sta la forza del libro.

In altre parole, non è solo una storia damore singolare, ma è anche un racconto che ci aiuta a riflettere su tutto ciò che comporta lidentità culturale e linguistica di una persona. E di questi tempi, ne abbiamo tutti un gran bisogno.


Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale Verona Fedele, 19 luglio 2015, n° 28