sabato 26 aprile 2014

Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti (Mursia, Milano 2010, 3^ed. 2013) di Jan Bernas (1978)



Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani. Istriani, fiumani e dalmati: storie di esuli e rimasti (Mursia, Milano 2010, 3^ed. 2013) di Jan Bernas (1978), racconta, attraverso alcune testimonianze dirette, la storia di migliaia di italiani che hanno vissuto, sulla loro pelle, la tragedia della Jugoslavizzazione delle terre d’Istria, di Fiume e Dalmazia, a seguito della 2^ Guerra Mondiale. Il lavoro di Bernas, giornalista italiano di origine polacca, è preziosissimo perché aiuta a districare una matassa di vite ferite, molto complessa da un punto di vista storico e politico. Il libro è presentato da una prefazione di Walter Veltroni e da un’introduzione storica dove lo stesso Bernas chiarisce che “questo non vuole essere un libro di storia, semmai un insieme di testimonianze capaci di ricostruire nella loro complessità i fatti, le sofferenze e le opposte ragioni che portarono un popolo con lingua, usi e tradizioni comuni a dividersi“. La scrittura di Barnes fa risuonare, sena alcuna retorica, le voci delle persone che raccontano l’esodo, o l’essere rimasti minoranza, stranieri nella loro terra, le stragi, i massacri, le foibe, le torture subite nei vari campi di concentramento jugoslavi, tra cui quello di Goli Otok, e molto altro ancora. Il tratto che accomuna tutte queste persone è l’essere stati italiani in una terra che italiana non è più stata.
Il libro si divide in quattro parti. La prima raccoglie le testimonianze degli “esuli” o dei “rimasti” nella costa occidentale dell’Istria: Buie, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Dignano. Nella seconda parte, ascoltiamo gli “esuli” e i “rimasti” a Pola, dove il 18 agosto 1946 è avvenuta la strage di Vergarolla da parte dei servizi segreti jugoslavi: “il culmine del terrorismo, il punto di non ritorno che ha spinto i polesani a optare per l’esilio, certi che la loro condizione, con l’ormai imminente occupazione slava, sarebbe solo potuta peggiorare”. In questa parte ascoltiamo ancora le voci di altri “rimasti”, nella costa orientale istriana, ad Albona, o a Fianona. Mentre nella quarta e ultima parte, troviamo le storie, forse, meno note, dei titini italiani e degli italiani del controesodo, comunisti convinti.
Nonostante il muro di Berlino sia caduto nel 1989, queste storie non sono ancora affrancate dall’ideologia. Lo si vede dalle diverse reazioni che sta suscitando lo spettacolo, tratto da questo libro, del cantautore romano Simone Cristicchi, Magazzino 18. Un’opera che riceve, insieme a una critica entusiasta e commossa, la scomunica dell’Associazione dei Partigiani Italiani unita però alla difesa di un deputato del PD, figlio di un partigiano. Ci auguriamo comunque di vedere presto a Verona Magazzino 18 che sicuramente ci può aiutare ad uscire da questa impasse ideologica che sembra riproporre pari pari quel passato che ci racconta Claudio Ugussi, un “rimasto”, pittore e scrittore di Buie nato a Pola:, “Siamo cresciuti portandoci sulle spalle il peso di un marchio di fuoco, indelebile: ‘Italiani fascisti’. (...) Tutto quello che era italiano era fascista. Era automatico. Il paradosso era che in Italia, noi che avevamo deciso di restare e di non abbandonare la nostra terra, siamo stati, e a volte lo siamo ancora, tacciati di essere comunisti. O peggio, amici di Tito. Qui, i croati invece ci urlavano: ‘Fascisti!’. Uno strano destino, il nostro. Fascisti in Croazia, comunisti in Italia.” E tra loro, ci sono stati anche i comunisti in buona fede che hanno visto crollare gli ideali cui avevano dedicato la vita, o perlomeno la loro giovinezza. Così Myriam Andreatini, esule con tutta la famiglia, racconta dello zio Giovanni, ateo e socialista, rimasto a Pola per costruire la Pola Jugoslava: “solo dopo alcuni anni, nel 1951, si decise a scrivere una lettera alla nonna. Con gli occhi chiusi, la nonna ascoltava in religioso silenzio le parole che le leggevo del figlio rimasto. Allo zio Giovanni il mondo era crollato addosso. Tutti i suoi ideali erano andati distrutti. Il 1° maggio invece di festeggiare il giorno dei lavoratori andava nell’unica chiesa dove era rimasto un sacerdote, quella dedicata alla Madonna del mare, per confessarsi e fare la prima comunione. Morì poco dopo, nel 1953, solo e deluso nella sua Pola.”

recensione di Maddalena Cavalleri
(pubblicata su Verona Fedele nel febbraio 2014)

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