mercoledì 4 novembre 2009

LE API DEL SOGNO SONO FINALMENTE VOLATE A CASA



Finalmente sono uscite le api. Dovrei dire il libro “Le Api del Sogno”, ma negli anni “le api” ci hanno davvero fatto compagnia e accompagnato in tanta vita. Ecco perché mi piace dire e scrivere le api.
Si tratta di un lavoro che ha visto impegnato Lorenzo (mio marito) in tanti e tanti anni (1996-2005). Molte sono state le stesure e molti gli interlocutori. Sembrava che per una ragione o per l’altra non ci fosse posto per le Api. Abbiamo bussato a tante porte. Non ci speravamo più. Poi un giorno, mi sono decisa a scrivere a p. Espedito, responsabile della casa editrice Servitium, il quale ha capito e ha iniziato a prendesi cura di loro. Le Api, ben presto, avrebbero visto la luce.
Quando iniziai a frequentare Lorenzo durante il periodo del lutto, due erano i suoi interlocutori, o meglio, due erano i polmoni che lo facevano respirare: Paul Celan e Emily Dickinson.
Attraverso il dialogo con Celan è nata Carità della notte: fu sempre p. Espedito che raccolse con mani virili e delicate il manoscritto. Ne capì il cammino e si rese disponibile per una pubblicazione.
Poi fu la volta del Lessico della gioia, della nuova traduzione del Libro d’ore di Rilke e poi de Le Api del sogno.
Ricordo ancora quando, parecchi anni fa, andai a Milano per portare il lavoro di Lorenzo presso una nota Agenzia letteraria, per vedere se fosse possibile trovare un interlocutore nel mondo editoriale. La persona con cui entrai in contatto fu molto disponibile e cercò di fare il possibile per promuovere il manoscritto. Ne intuiva il valore. Purtroppo non se ne fece nulla, ma con il senno di poi, probabilmente, fu meglio così. Ogni lavoro ha la sua storia e quella delle api è lunga e irta di ostacoli. La natura – dice mia madre - non fa salti.
“Sono pagine intrise di dolore e anche se delicate e scritte meravigliosamente, non sono adatte alle esigenze del mercato editoriale. Forse è per questo che fanno fatica a spiccare il volo” – così, diversi anni fa, mi parlò una persona che ancora lavora nel mondo editoriale e che ne conosce le “strane” leggi che lo regolano.
Chissà, forse aveva ragione (anche se, a dire la verità, penso che siano tante altre le ragioni e che le api abbiano dovuto attendere il momento giusto, come tutte le cose. Né un minuto prima, né un minuto dopo. C’è un tempo per tutto, anche per le api: non si possono forzare le tappe. La giusta attesa dà respiro al cuore che, nel frattempo, ha tante ragioni per continuare a vivere, amare e soffrire).
Le api da poco sono volate fino a casa, nella loro nuova veste. E’ bellissima.
Un grazie di cuore a Servitium e a Margheritta Pieracci Harwell che le hanno tenute a battesimo.

Si tratta di una lunga lettera a Emily Dickinson, nella quale Lorenzo pone alla poetessa una domanda sulla gioia. In punta di piedi, entriamo con lui nel mondo di Emily: ne scorgiamo i tratti, i volti, i luoghi. Piccoli quadri ambientati ad Amherst si affiancano alle voci allegre delle compagne o a quella dolce e sofferente della madre.
Qualsiasi persona, trovandosi nelle mani queste pagine, può ascoltare le eco che giungono dalla stanza di Emily, dal salotto di casa Dickinson e cogliere gesti, dialoghi, risate che ancora risuonano fino a noi.
Queste api, vi assicuro, sono gentili, trattano con riguardo i loro ospiti, siano essi “buoni” o “cattivi” lettori.

sabato 28 marzo 2009

MILANA TERLOEVA, HO DANZATO SULLE ROVINE








Ho da poco finito di leggere Ho danzato sulle rovine di Milana Terloeva. Mi ci sono imbattuta dovendo preparare un incontro, insieme all’amico Stefano Verzé, sulla Russia di Putin e sulla grande giornalista Anna Politoskaja.
L’autrice è una giovane cecena di 28 anni che per i casi strani e bizzarri della vita si è trovata a vivere un’esperienza da sogno a Parigi dove ha potuto frequentare la facoltà di Scienze Politiche e la scuola di Giornalismo. Un’esperienza “da sogno” rispetto alla vita dura e insostenibile della guerra in Cecenia.
Il libro si apre a Orechovo, suo villaggio natale, nel dicembre 1994, mese che segna l’inizio della prima guerra cecena e si chiude, dodici anni dopo, nell’estate del 2006, a Groznyj, la capitale.
Ammetto che della Cecenia so poco nulla, e quel poco che ora so, lo sono venuta a sapere grazie ai libri della Politoskaja e a questo della giovane Terloeva. Oltre a sapere molto poco, ho potuto percepire solo ciò che passano le nostre televisioni (pur non avendo la TV) e le nostre radio. Ovvero, poco nulla. O meglio, il nulla. Evviva il potere del libro! Leggerlo, è stato come conversare tranquillamente davanti a una tazza di caffè, con Milana che racconta di sé, della sua famiglia, del suo Paese e dei suoi amici. In questo modo, ho scoperto tante cose, tutte quelle che nessun telegiornale ti racconta perché solo a pochi interessano ma soprattutto perché si preferisce far passare ben altro. A dire la verità, Putin non mi è mai piaciuto e non capivo perché un anticomunista come Berlusconi potesse andare così d’amore d’accordo con un ex funzionario del KGB. I soldi si sa non hanno né odore né sapore… Ma dopo aver letto le due giornaliste, mi sono fatta la mia opinione che gli amanti di Berlusconi sicuramente non condivideranno. Berlusconi è santo e santo resta, e non è di lui che voglio parlare.
Ma torniamo a queste due donne straordinarie: grazie a loro sono venuta a conoscenza del “grande gioco" sporco della guerra cecena, dei campi di filtraggio e delle zacistka ovvero delle operazioni di pulizia che l’esercito russo compie nei confronti del popolo ceceno.
Traggo dal libro, Ho danzato sulle rovine, pp. 93,94
 Alkhan Jurt, Cecenia primavera 2000
Tutto è calmo nel villaggio di Alkhan Jurt. Solo le esplosioni in lontananza e il canto degli uccelli spezzano il silenzio dell’alba. Si scorgono ancora le ultime stelle della notte, la luna incontra il sole che viene a prendere il suo posto.
All’improvviso, un fracasso incredibile risveglia gli abitanti. Carri armati, veicoli blindati di trasporto delle truppe, poi camion dell’esercito federale si riversano ad Alkhan Jurt. Decine e decine di soldati corrono da tutte le parti gridando, circondano le case, sfondano le porte a colpi di calcio di fucile. E’ un’”operazione di pulizia”.
Gli abitanti si pongono tutti le medesime domande, chi sarà definito “terrorista” per coprire le quote di un impero in pieno regresso staliniano? Chi avrà la fortuna di poter restare a casa sua? Quanti saranno quelli che spariranno oggi?
Ad Alkhan Jurt, in questa fresca mattina di aprile, tra i perdenti della grande lotteria antiterrorista c’era il mio amico Musa, ventiquattro anni. Le cicatrici delle sue ferite del 1995 hanno avuto valore di prova: è stato subito classificato tra i discepoli di Bin Laden. L’hanno mandato, insieme ad altri ragazzi, nel famoso campo di Cernokosovo. Musa mi ha parlato così del suo “soggiorno” nell’inferno dei campi di filtraggio:
“A Cernokosovo hanno sciolto dei cani rabbiosi nel camion e ci hanno fatto scendere usando il calcio del fucile. Poi ci hanno fatto passare nel “corridoio”. E’ un rito dei russi: i soldati formano due file, si muniscono di manganelli e ci fanno sfilare nel mezzo. I colpi piovono senza tregua. Un minuto sembra un’eternità. Vuoi proteggerti la testa con le mani. Ma non serve. Un soldato ti colpisce al ventre. Meccanicamente abbassi le braccia per proteggerti il ventre, e così via…”
Le torture proseguono a pag. 95, ma mi fermo prima non perché finiscono ma perché sono dure da sostenere.
La questione cecena è una questione antica per la Russia. Nel racconto, Chadzi-Murat, Tolstoj parla del “cardo ceceno” che il filosofo francese André Glucksmann riprende nella prefazione al libro della Politoskaia Cecenia. Il disonore russo. Da Caterina II a Putin, la Russia ha seppellito uomini nel grande cimitero caucasico per ricordare a ogni russo che c’è sempre un prezzo da pagare quando si vuole resistere agli ordini che arrivano dall’alto. Putin l’ha capito bene. E la seconda guerra cecena affonda lì le sue radici.
Continua Glucksmann, nella prefazione al libro di Anna Politoskaja, Cecenia. Il disonore russo:
Quanto alle prospettive aperte dalla scuola putiniana di crudeltà, Anna ne evoca qui le tragiche conseguenze. “In Cecenia siamo caduti in un buco nero, abbiamo allevato una tale quantità di assassini cinici che basterebbe a soddisfare il fabbisogno di killer  a pagamento dell’intero pianeta. Rispondo alle mie parole: una persona su due uccisa in Cecenia è un civile abbattuto in condizioni di giustizia sommaria. Questo significa che migliaia di militari che hanno servito in Cecenia sono dei boia sistematici (p. 10)
La Politoskaia più avanti prosegue:
A volte passeggio tra le rovine della capitale cecena. Parlo con i suoi abitanti, li guardo negli occhi, ripenso alle loro storie  e mi rendo conto che la mia mente rifiuta di credergli, contesta, respinge i loro racconti. Semplicemente per proteggersi. Ci credo e non ci credo, vorrei non farmi contaminare. Sono realmente qui, ma allo stesso tempo è come se fossi in un film…
Non è possibile che le nostre autorità si ostinino in modo così imbecille a opprimere quelli che vivono qui! Perché continuare a perseguitare abitanti che hanno già sopportato fardelli disumani per il solo fatto di essere rimasti in questa orribile città?(pp.16-17)
Prima di concludere, mi preme segnalare il sito dei giovani francesi capeggiati da Gluksmann che hanno creato questa associazione che si occupa di far studiare a Parigi giovani che provengono da Paesi in guerra. http://www.etudessansfrontieres.org/  
Inizia così il libro della giovane giornalista cecena:
Caro lettore
A Groznyj un uomo vagava con la sua balalaica. La guerra gli aveva preso tutto e soltanto la musica lo teneva legato alla vita. A volte veniva a suonare sotto la mia finestra e raccontava che un tempo aveva attraversato la Russia, l’Europa, il mondo intero con il suo strumento. Le sue strane avventure terminavano tutte allo stesso modo: «Ma, dopo, la guerra...»
Un giorno arrivò nel cortile del mio caseggiato, con le braccia ciondoloni, vuote e inutili, senza musica. I soldati avevano rubato il suo ultimo bene. Con un’amica ho raccolto dei soldi, poi tutte e due siamo andate al mercato a comprare una balalaica. Sulla strada del ritorno abbiamo notato una decina di soldati armati e un gruppetto di civili. Il musicista giaceva a terra, il corpo crivellato di pallottole. Era stato ucciso, insieme a otto giovani del quartiere, nel corso di un’« operazione di pulizia ». L’indomani, la televisione di Mosca annunciava con orgoglio l’eliminazione di nove terroristi.
Ecco cos’è Groznyj oggi, un caos di morti e di menzogne dove delle ombre umane lottano per sopravvivere. Questo libro non aspira a demolire la propaganda o a spiegare un conflitto vecchio di tre secoli. È la storia semplice di una ragazza, uno specchio che scorre lungo le strade sconvolte della mia cara Cecenia.
©2007, Corbaccio 2008

mercoledì 11 febbraio 2009

L'ANNO NUOVO - ROSH HA-SHANAH, cap. 6 di Luci accese di Bella Chagall


In altre pagine del mio blog, si possono trovare altri capitoli del libro di Bella Chagall, Luci accese. 
La traduzione che qui propongo, cerca di riestituire la lingua di Bella (ci devo ancora lavorare un po'! ma intanto la pubblico lo stesso) che racconta la sua vita a Vitebesk. Le frasi sono brevi e spezzate, le forme semplici, e il lessico è quello di una bimba di nove anni che riesce comunque  a trasmetterci tutta l'emozione di quella festa. I preparativi prima della preghiera al tempio, la sinagoga gremita di uomini donne bambini invasa dal suono dello shofàr, la purificazione nelle acque del fiume per i peccati commessi durante tutto l'anno e la benedizione dei frutti nuovi. 

L'ANNO NUOVO - ROSH HA-SHANAH, cap. VI di Luci accese di Bella Chagall
Giungono i giorni di Teshuvah. La casa si riempie tutta di rumori. Ogni festa porta con sé il proprio sapore e si ammanta di un’atmosfera tutta sua. L’aria dell’Anno Nuovo: leggera, misericordiosa, tersa come dopo una pioggia. Dopo le notti buie delle preghiere di Teshuvah, si rischiara un giorno luminoso e pieno di sole. La settimana delle preghiere di Teshuvah è quella meno tranquilla. Papà si alza nel pieno della notte, sveglia i miei fratelli; si vestono in silenzio e svaniscono, come ladri, dietro alla porta. Cosa cercano nel freddo e nel buio delle strade? A letto, si sta così al caldo! E se non tornassero più? Non smetterei di piangere con la mamma. Sto per iniziare già da sola e sprofondo sotto le coperte, raggomitolandomi ancora di più. Al mattino, papà beve il tè: il viso pallido, sfinito. In tutti, l’eccitazione prima della festa manda via la stanchezza.
Chiudiamo presto il negozio e tutti ci prepariamo per andare in sinagoga. Lo facciamo con più cura del solito, come se ci andassimo per la prima volta. Ognuno si mette qualcosa di nuovo: chi un fresco cappello chiaro, chi una cravatta nuova, chi un vestito tutto nuovo…Anche la mamma si mette una camicetta di seta bianca, e come rigenerata, con spirito nuovo, si appresta ad andare in sinagoga. Mio fratello maggiore sfoglia il grande libro delle preghiere e segna, per lei, le pagine della preghiera dove, da anni, la mano di mio nonno ha scritto “qui”. La mamma riconosce i versetti che l’anno scorso ha cosparso di lacrime. Un tremolio le vela gli occhi. Si affretta verso la sinagoga per poter piangere sulle stesse righe, come se fosse qualcosa di mai accaduta prima.
Pronta per lei c’è una pila di libri molto pii. Lei li avvolge tutti in un grande fazzoletto e li porta via con sé: non deve chiedere un buon anno per tutta la sua famiglia? I libri e il talleth di papà, invece, li viene a prendere il custode durante il giorno. Resto sola. La casa è deserta e anch’io mi sento vuota come la casa. Il vecchio anno, come si fosse perduto, si attarda, da qualche parte dietro alle finestre. L’anno che viene dovrà essere davvero chiaro, luminoso.
Vorrei dormire insieme alla notte.
L’indomani, presto, andrò anch’io in sinagoga vestita con abiti nuovi dalla testa ai piedi. Il sole risplende. L’aria è limpida e viva. Le mie scarpe nuove fanno un rumore secco. Mi affretto. Di sicuro in sinagoga il Nuovo Anno è già arrivato e già risuona lo shofar: mi riecheggia nelle orecchie. Ho l’impressione che il cielo sia sceso fin sulla terra per correre con me al tempio. Mi dirigo verso la parte riservata alle donne, spingo la porta. Una vampata di calore, come d’un forno, mi viene addosso. Un’ aria pesante mi toglie il respiro. La sinagoga è piena. Gli alti leggii sono invasi dai libri. Delle donne anziane se ne stanno sedute comodamente mentre alcune ragazze in piedi sbucano fuori, quasi sopra alle loro teste. I bambini cercano di farsi strada, sotto le loro gambe. Vorrei avvicinarmi alla mamma, ma è seduta davanti, ben lontano, vicino alla finestra che dà sulla parte riservata agli uomini. Non appena mi muovo, una donna si gira con le spalle verso di me: un volto in lacrime mi rivolge uno sguardo arrabbiato: “Oh! Oh!” effonde intorno a me il suo corruccio. Da dietro mi spingono, e come liberata, vado addosso alla balaustra. La mamma mi fa un cenno con gli occhi. E’ contenta che sia già vicino a lei. Ma dov’è lo shofar? Dov’è il Nuovo Anno? Guardo le pareti della parte riservata agli uomini. L’Arca Santa è chiusa: è coperta dalla tenda e custodita, nella quiete del silenzio, dai due leoni che vi sono ricamati sopra. Gli uomini si rianimano come presi da qualcos’altro.
Sono arrivata troppo presto o troppo tardi?
D’un tratto, da sotto un talleth si protende una mano con lo shofar. Lo shofar ora è lì, nell’aria, immobile. Emette un suono. Tutti si risvegliano. Ognuno smette di parlare tra sé e sé. Stiamo tutti in attesa. Lo shofar, ancora una volta, diffonde nell’aria un suono spezzato come se non avesse più fiato. Da una parte all’altra s’incrociano gli sguardi. Lo shofàr, come un grido, emette un suono forte, roco. Per tutta la sinagoga si diffonde un brusio:  ma cos’è questo modo di suonare lo shofar? Manca di forza…perché non chiedere a qualcun altro di suonare? All’improvviso, sentiamo un suono pulito e prolungato, come se gli spiriti maligni che ostruivano lo shofar, fossero stati scacciati: come un richiamo, si diffonde per tutta la sinagoga, fino a riempirne ogni angolo. Tutti sono sollevati! Chi fa un sospiro, chi annuisce con un cenno del capo. Il suono si propaga verso l’alto fino a toccare i muri. Viene verso di me, verso la mia balaustra. Raggiunge il soffitto, smuove l’aria spenta, sigilla ogni spazio vuoto. Mi penetra nelle orecchie, nella bocca: ho addirittura male alla pancia. Quand’è che lo shofar non avrà più fiato? Cosa vuole da noi l’Anno Nuovo?
Mi ricordo di tutti i miei peccati. Dio sa cosa accadrà. Sono tanti i peccati che si sono accumulati durante l’anno. A fatica, riesco aspettare il pomeriggio. Ho fretta di andare con la mamma alla Purificazione del Tachlich per poter scrollare via i miei peccati nel nostro grande fiume. Lungo la strada, altre donne, altri uomini. Tutti vanno giù per la stradina che porta alla riva. Sono tutti vestiti di nero, come se andassero – non voglia Iddio – a un funerale. L’aria è fresca. Il vento fa sentire le sue sferzate dall’alta riva del fiume e dal grande giardino della città. Alcune foglie volano, rossastre, gialle e come farfalle volteggiano nell’aria: piroettando, cadono a terra. Se ne volano via così anche i nostri peccati? Crepitano le foglie e si attaccano agli scarponcini. Me le trascino dietro: con loro è meno duro andare al “Tachlich”. “Perché ti fermi sempre?”, la mamma mi tira per la mano. “Lascia stare le foglie!” Di lì a poco, tutti si fermano. La strada si è come scissa: acque profonde e fredde sembrano riversarsi sui nostri piedi. In riva al fiume si addensano, in cerchio, uomini in nero. Coi capi protesi e le barbe ciondolanti, s’immergono nell’acqua come se ne volessero vedere il fondo. D’un tratto, rovesciano le tasche: ne vengono fuori avanzi e briciole che gli uomini gettano nell’acqua insieme ai loro peccati, recitando ad alta voce una preghiera. Ma come faccio io, a scrollarmi di dosso tutti i miei peccati? In tasca non ho briciole e non ho nemmeno le tasche! Me ne sto in piedi vicino alla mamma e tremo per il vento freddo che solleva le gonne. La mamma mi sussurra le parole del rito: le preghiere, con i peccati, dalla bocca cadono dritte nell’acqua. Mi sembra che il fiume si sia ingrossato per tutti i nostri peccati e che trasporti acque divenute improvvisamente nere.
Purificata, faccio ritorno a casa. La mamma, appena entrate, si siede per leggere i salmi. Vuole approfittare ancora un po’ del giorno per domandare ancora qualcosa a Dio. Un mormorio si diffonde per la stanza buia. L’aria si annebbia come gli occhiali della mamma che in silenzio piange, scuotendo il capo.
Cosa devo fare?
Mi sembra che dai fitti versetti dei salmi sguscino fuori, piano piano, i nostri avi: i nonni, le nonne. Le ombre diventano sempre più grandi, si assottigliano e mi accerchiano. Ho paura di girarmi. Forse qualcuno si è messo dietro di me e vuole abbracciarmi? “Mamma!” non riesco a trattenermi e la tiro per la manica. Lei alza il capo, si soffia il naso e smette di piangere. Bacia il salterio e lo chiude. “Bachka – mi dice – torno in sinagoga. Tra poco rientreremo tutti. Tu piccola mia prepara la tavola” “Mamma è per la benedizione delle Primizie?”. Non appena è uscita, apro bene l’armadio delle provviste. Tiro fuori dei grandi sacchi di carta colmi di frutta e li rovescio sulla tavola. Come in un grande giardino rotolano fuori grossi meloni verdi. Al loro fianco, se ne stanno distesi grappoli d’uva. Uva bianca, rossa. Grosse pere succose hanno ruotato sulle loro testoline. Mele dolci, gialle diventano dorate come se le avessimo già immerse nel miele. Prugne rosso scuro si spandono per tutta la tavola. Su cosa faremo la benedizione dei frutti nuovi? Ne abbiamo mangiati per tutto l’anno! Da un altro sacco, mi accorgo che spunta fuori un ananas: sembra un piccolo abete. “Sacha, tu lo sai dove cresce un ananas?” “Chi lo sa! – mi risponde alzando le mani - Ho ben altro a cui pensare!” Nessuno sa da dove provenga l’ananas. Con la sua buccia callosa ricorda uno strano pesce. Soltanto la sua coda se ne sta dritta in aria come un ventaglio interamente aperto. Tocco il suo pancino pieno zeppo. Trema tutto. Non è semplice toccarlo. Si potrebbe dire che se ne sta lì come uno zar. Per lui libero il centro della tavola. Sacha lo taglia senza pietà. Come un pesce vivo, l’ananas geme sotto il coltello affilato. Il suo succo zampilla fin sulle mie dita come sangue bianco. Lo lecco. Un gusto amaro-dolce. E’ il gusto del Nuovo Anno?
“Mio Dio!” mormoro in tutta fretta “prima che rientrino tutti dalla sinagoga, pensa a tutti noi! Al tempio, mamma e papà, T’implorano tutto il giorno per un buon anno. Papà pensa di continuo a Te e la mamma, ad ogni passo, ricorda il Tuo Nome! Tu lo sai quanto sono sfiniti, pieni di preoccupazioni, mio Dio! Tu puoi tutto! Fa che possiamo avere un anno buono e dolce!” Con forza, cospargo di zucchero l’ananas amaro. “Buona Festa! Buona Festa!” I miei fratelli accorrono gridando uno più forte dell’altro. Subito dopo di loro, la mamma e il papà entrano pallidi e stanchi. “Possiate essere iscritti nel Libro della Vita per un anno buono”. Sento il cuore sobbalzarmi. Sembra che Dio stesso abbia parlato per mezzo della loro bocca.
Traduzione di Maddalena Cavalleri (Bella Chagall, Luce accese, éd. Trois collines, Genève-Paris, 1948)

martedì 10 febbraio 2009

LA PACE IRRAGGIUNGIBILE


Questa sera, tornando a casa da scuola, ascoltavo per radio (radio 1) una brevissima trasmissione dedicata alla Giornata del Ricordo. Oggi è il 10 febbraio. Mentre ascoltavo, pensavo a come ogni tragedia abbia bisogno di tempo per essere ascoltata, recepita e accolta dalle popolazioni. Per molti anni - nessuno può ormai negarlo -  abbiamo rimosso le foibe; non se ne parlava soprattutto perché non vi era un terreno favorevole per poterlo fare. Oggi, grazie alla Giornata del ricordo, il 56% degli italiani sa cosa sono le foibe, mentre prima, sì e no il  20%, sapeva cosa fossero (almeno così informava per radio il Presidente dell'Associazione). La giornalista che conduceva la trasmissione ricordava il dramma di coloro che erano stati costretti a lasciare la loro terra, le loro case, il lavoro. Parlavano di una "grande ferita" che difficilmente guarisce e del trauma di un popolo, di più generazioni. 

Il XX secolo è ormai celebre per le sue tragedie: la Shoah, i lager sovietici, lo sterminio degli Armeni..., e la storia ci insegna che non ci sono i "buoni" e i "cattivi" ma che ogni popolo, ogni essere umano porta in sé luce e ombre, contraddizioni, incoerenze.
Tanti sono stati costretti a lasciare le loro case.
Oggi, se ci sono tanti immigrati che invadono "le nostre città" è perché miseria, regimi, guerre costringono le persone a fuggire pur di darsi una speranza di vita migliore. Per questo non posso non sentirmi una privilegiata e quindi non vorrei "pontificare" dalla comoda poltrona sulla quale sono ora seduta.
Non so perché, ma tra le tante tragedie, quelle dei popoli di Israele e di Palestina continuano a catalizzare la mia attenzione. Mi sento coinvolta e responsabile in quanto cittadina italiana e europea.  
Sempre navigando su internet mi sono imbattuta in questo video della CBS che propongo di seguito. Mi sembra ben fatto e che possa aiutare a conoscere lo stato d'animo di molti arabi palestinesi. 



Per un approfondimento del Giorno del Ricordo, segnalo invece questo sito:


Le tragedie sono ben diverse, ma sono comunque sempre tragedie per chi le vive.