giovedì 3 aprile 2008

LUCI ACCESE di Bella Chagall: cap. III AI BAGNI

Marc Chagall con la moglie Bella e la figlioletta Ida - 1917

1941 Marc e Bella Chagall da: pages.cthome.net/WWIIHERO/chagall.html

Vitebsk 1908

E' sera. Giovedì. Penso a Bella. A lei bimba di nove anni e poi donna che ricorda. Che si ricorda. Questa sera mi piace riportare il capitolo Ai Bagni in cui Bella ci restituisce l'atmosfera della sua cittadina, Vitebsk (oggi Bielorussia) ai primissimi albori del secolo appena trascorso. Una delle fotografie che ho scelto per Bella, ritrae Vitebsk nel 1908.
Bella Rosenfeld nasce nel 1895: nei suoi scritti ricorda la bimba di nove anni. La fotografia sembra aver caturato per noi il tempo della memoria e del ricordo di quei giovedì in cui scendeva ai bagni con la madre.
Con loro ci prepariamo ad entrare nello Shabbat....
(Ricordo l'estate che ho trascorso a tradurre la voce di Bella Rosenfeld: io assorta nelle sue pagine e nell'incanto delle acque del mio lago, lei nel freddo dell'inverno, diretta ai bagni ebraici lungo la stradina dove scorre la Vitba, a Vitebsk.
Ma ascoltiamola:

Lo Shabbat, per me, inizia già il giovedì quando scende la sera.
Tardi nella giornata, la mamma esce di corsa dal negozio, come se volesse sottrarsi di forza al frastuono della settimana. Ancora in negozio, la si sente gridare:
“Bachka, dove sei? Andiamo ai bagni. Sacha! La biancheria è pronta?Svelte! svelte! Non ho tempo!”
La domestica avvolge il pacco della biancheria, lo lega con una corda in modo così forte che la carta si strappa. Mi m’infila il cappotto, gli zoccoli, mi stringe il cappuccio; non posso emettere un respiro.
“Sciocchina, non piangere!” Prontamente mi asciuga le lacrime che continuano a scendere.
“Andiamo! Fuori si gela. Ci manca solo – Dio ti preservi - che tu prenda ancora freddo!”
Alla chetichella, io e la mamma usciamo dal portone di casa, come se fosse già sabato e il negozio fosse già chiuso. La mamma si sarebbe sentita a disagio passare di là con la biancheria sotto il braccio, anche se avvolta in una carta scura. Il negozio, infatti, è pieno di uomini e, chi lo sa, potrebbero ancora trattenerla lì. Andiamo di corsa.
E’ proprio tardi: la mamma ha aspettato fino all’ultimo minuto. Sulla porta, probabilmente, ci aspetta la slitta che ci condurrà ai bagni. Il cocchiere è sempre lo stesso – è sempre lì di fronte alla casa – sa già che, ogni giovedì sera, quasi alla stessa ora, la mamma si fa portare ai bagni.
La sera, fredda, nevosa, ci avvolge subito in una coltre gelata. Sulla slitta, sotto la coperta logora, sento la mano della mamma che mi tiene stretta – soprattutto, che non scivoli! – e sento che la mamma ha già dimenticato il negozio e la baraonda che ha appena fuggito.
Vola via con la slitta, verso un altrove nell’aria pura; sembra che stia già cominciando a vibrare per tutte le sante preghiere da recitare, con la volontà di Dio, prima dell’arrivo dello Shabbat.
La strada non è lunga. Il cocchiera ci porta per una scorciatoia, per la riva buia di un fiumicello – la Vitba – dove si trovano i bagni ebraici.
In silenzio, la slitta fende l’aria gelata vibrante di gelo. Dalla riva superiore, lampeggiano fioche luci occhieggianti. E’ la luce di Padlo, la piccola piazza del mercato, che brilla laggiù sull’altura.

Conosco bene il mercato. Ne conosco i mercanti, i negozi seminterrati, e soprattutto le latterie. Prima di scendere i gradini di pietra, si doveva invocare l’aiuto del Signore, tanto era bagnata e scivolosa la scala. E faceva freddo, come in una tomba.
L’acqua trasudava dai muri grigi. Una sola piccola lampada dal vetro pieno di fumo rischiarava il locale. Il suo raggio debole raggiungeva appena i pani di burro giallo, la larga bacinella di panna, e ancor meno l’angolo da cui spuntavano, come testoline di bimbi, i formaggi duri di Gomel.
Soltanto la grande bilancia si vedeva chiaramente. Sospesa come un trono in mezzo alla cantina. Le catene di ferro oscillavano nell’aria come lunghe trecce nere, e i due piatti di rame reggevano, in modo fiero, poveri e pochi viveri, come se fosse la Giustizia in persona.
I mercanti, in vestitoni lucidi, s’agitavano tutt’intorno alla cantina. Con la punta delle dita che uscivano dai mezzi-guanti, strappavano pezzi di burro, riempivano brocche di latte, si lanciavano dei formaggi come palle di neve, e durante tutto il tempo, gridavano come se qualcuno, da dietro, li percuotesse. Probabilmente in questo modo si riscaldavano. Di tanto intanto, dalla cantina carica di respiri filtra una parolaccia. Le maledizioni, linguette di fuoco, volano intorno, infiammando una bancarella dopo l’altra.
“Che la peste se lo porti via! Che schifo di mercanzie ha? Maledetti i miei anni se mento.
I mercanti sbraitano. Sembrano topi neri nelle loro tane. Le maledizioni s’infiammano proprio mentre fuori, si ravvivano i carboni ardenti nei vasi di ferro, lì se ne stanno sedute piccole donne tarchiate che tengono cesta di fave abbrustolite sotto lunghi scialli.
I mercanti si insultano con tanto ardore e tanta forza che diventa quasi un’allegria.


Tutte queste grida ci accompagnano da lontano, mentre io e la mamma andiamo spedite verso i bagni. Il vento ci riporta una maledizione, fa tremare l’aria. La neve che scende la fa cadere giù a terra.
E così siamo arrivate.
“Torna – se Dio vuole – da qui a due ore”, dice la mamma al cocchiere, anche se lo sa da tanti anni.
Nel vestibolo in legno, ci imbattiamo nella donna che vende i biglietti, imbacuccata come una palla di mercanzie. All’inizio, non si muove nemmeno. Si scorgono solo la punta del naso e delle dita. Sul tavolo, accanto ai biglietti, se ne vanno a spasso una pera, una mela gelate. Un po’ di Kvass blu – reso livido probabilmente dal gelo – crepita in una bottiglia.
La cassiera, come se ingerisse i nostri respiri caldi, lentamente socchiude la bocca mezza congelata, e ci rivolge un sorriso infreddolito.
“Fa davvero freddo a rimanere seduti per tutto il giorno”, dice rianimandosi a poco a poco. “Il vento soffia dappertutto. Ancora un po’ e ci si potrebbe completamente congelare in attesa che arrivi un essere umano.“
La mamma la incoraggia con un sorriso e le compra per me una mela o una pera.
Spingiamo la porticina che conduce ai bagni. Il rumore del chiavistello sollevato sveglia due o tre donne nude, coperte dagli scialli.
Come mosche spaventate, sussultano, saltando dalle panche, e vengono a parlottare attorno a noi.
“Buonasera, Altechka. Buonasera! Così tardi! Coma sta, Alta? I piccolini stanno bene? Come stai , Bachinka? “ E le donne iniziano a palpeggiarmi da tutte le parti.
“Ah, che il malocchio ti risparmi! Ma cresci come lievito!”
Si sono rianimate, non hanno atteso invano . Gli scialli cadono dalle schiene come ali nere. Mi colpisce il biancore dei corpi.
Tutto diviene più puro, più chiaro…
Nell’anticamera, il calore si mescola all’aria fredda che si riversa dall’esterno. Riconosco appena le donne che trovo ai bagni, nonostante siano sempre le stesse. E ogni giovedì mi sembra che diventino sempre più vecchie e brutte. La più giovane – il cui scialle sapeva ancora di muffa – non mi lascia stare con le sue mani ossute.
“Fa freddo, non è vero?” Allora? Il tuo vestito lo sbottoni? Ne hai un altro con te? Bene, lo butteremo dentro la panca. Andiamo, alza la gamba! Allora?”
Mi sprona come se fossi un cavallo.
Ancora prima di aver gettato un’occhiata in giro, mi ritrovo con tutte le asole delle scarpe slacciate, e scarpe, calze arrotolate volano verso la panca su cui sto seduta. Il mio sedere si alza e si abbassa insieme al sedile della panca.
E non ho nemmeno avuto il tempo di vedere quel che accade nella panca dove i vestiti cadono dentro come in una fossa buia…
Il vento soffia attraverso i vetri ghiacciati, ricoperti di brina, appannati di neve: si direbbero occhi divenuti ciechi.
Tremo di freddo. La donna dei bagni prende il mio telo e me lo avvolge intorno.
“Bene! Aspetta un pochino! Tra pochissimo avrai caldo. Ecco! Entriamo al bagno, vedi?”
Mi sento persa. Mi trascina come una capra verso la porticina.
Le sue mani di acciaio mi trascinano. “Non cadere, mio Dio, Bachinka! Cammina piano! Si scivola!”
Appena dentro, mi manca il respiro e , mezzo svenuta, mi lascio portare.
Una nuvola impenetrabile mi copre gli occhi. Una piccola lampada di metallo grigio è appesa con un gancio lassù in alto, sopra la porta. Il vetro minuscolo è ancora troppo grande per il lume e , appena la porta si apre, oscilla da tutte le parti.
Resto ferma. Ho paura di muovermi. Il pavimento, colmo d’acqua, viene meno. L’acqua scorre nelle gambe, scorre dal soffitto, dai muri, come se tutta la piccola casa trasudasse calore.
La donna dei bagni si precipita sulle tinozze, sciacqua la panca scivolosa dove devo sedermi. Non ha tempo di dirmi una parola. La schiena magra, lucida volteggia come la coda di un gatto.
L’acqua calda scorre. Due o tre tinozze sprigionano in pieno volto il vapore che scotta.
Il calore della panca mi calma, mi lascio mettere le gambe in una tinozza di acqua tiepida. La donna dei bagni mi si avvicina. I suoi seni ciondolano davanti ai miei occhi come palloni sgonfiati e nel suo ventre, teso come un tamburo, il mio naso sprofonda. Mi sento stretta tra le tinozze e il ventre. Non posso nemmeno girarmi – non posso nemmeno pensarci.
Le sue dita ruvide acciuffano i miei lunghi capelli. Con un solo movimento, comincia a strofinare. Il sapone scivola in su e in giù, come se stirasse la biancheria in testa.
La testa gira, nascosta tra i capelli. Non ho nemmeno il tempo di iniziare a piangere. Trattengo le lacrime, tolgo le bolle acide di sapone che mi bruciano gli occhi. Il sapone mi penetra nelle orecchie, nella bocca. Cieca, immergo le dita nel secchio d’acqua fredda posto vicino a me.
Ritorno in me solo quando ho i capelli sciacquati. Goccioloni d’acqua mi scendono sugli occhi e li calmano. Riprendendo fiato, tiro su la schiena ; apro gli occhi.
Sento lo scricchiolio della porticina e , sulla soglia, vedo, completamente nuda, la mia bianca mamma.
Una nuvola di vapore caldo subito la avvolge. Due donne la sostengono. Piccole lacrime di sudore scivolano giù dai fianchi, dai seni. Una pioggerellina di gocce continua a scorrere dai capelli e da dietro le orecchie.
Silenziosa, timida, la mamma se ne sta in piedi vicino alla porta. Le donne che si occupano di lei, si precipitano verso le tinozze, aprono tutti i rubinetti, passano con l’acqua calda la panca per lei.
Senza scomporsi, la mamma si siede e prende, col suo corpo, tutta la panca. Sfinita per essere stata tutta strofinata, da dove sono, la distinguo a stento. Persino davanti a me è a disagio e abbassa gli occhi appena le guardo solo i capelli. Al posto della sua folta parrucca riccia di tutti i giorni, scorgo i suoi capelli corti, sottili.
Si sono indeboliti, soffocati per tutti quegli anni, senza aria, sotto la parrucca pesante … Sono colta da una tristezza, come se perdessi di colpo le forze; mi lascio ancora lavare, senza opporre resistenza.
La donna mi afferra il corpo, mi afferra anche l’anima. Come un pezzo di pasta, mi pone sulla panca, ricomincia a strofinare, a darmi pizzicotti; sembra che voglia fare di me un pane a forma di treccia.
Mi giro di pancia. Mi da una tale botta sui glutei che salto su.
“Eh bene, cosa ne dici Batchinka? E’ bello, vero?”
La donna ritrova subito la lingua. “Guarda come sei diventata rossa! E’ un piacere darti pizzicotti!”
Sfinita, aspetto di togliermela di torno. All’improvviso ho paura; dietro le spalle, una massa d’acqua mi piomba addosso. Per un attimo, sparisco nel torrente. L’acqua mi solleva e mi trasporta come in un fiume. La donna m’inonda. Mi sciolgo come cera bianca, d’estasi, di calore.
“Uff” La donna tira un sospiro e si asciuga il naso con le mani bagnate. “Brilli davvero come un piccolo diamante, Bachinka! Che ti possa giovare, bambina mia!” Mi guarda con quei suoi occhi vitrei, avvizziti dall’acqua, e svelta, mi avvolge con un lenzuolo caldo.
Probabilmente vorrebbe asciugare se stessa. Piano piano, mi circonda con le braccia come se fossi una delle piccole candele di Shabbat che deve benedire.
Da lontano, guardo come si occupano della mamma. L’hanno sicuramente strofinata, insaponata e, di sicuro, le tinozze di acqua tiepida l’hanno fatta stare bene.
Eppure, non è ancora pronta.
Dopo le abluzioni, la più anziana delle donne si fa avanti con un sgabellino e si sistema ai piedi della mamma. Appoggia un candelabro di rame su di una cassetta, accende il pezzo di candela che è vi rimasto dentro. Ravviva la corta fiammella e comincia a lamentarsi davanti alla mamma sulla sua dura vita. Sembra che tutte le preoccupazioni le siano penetrate dentro alla schiena fino a farla accasciare di peso ai piedi della mamma.
“Possa Dio avere pietà di noi, liberarci da tutte le pene!”.
Alza gli occhi da terra. “Così sia, Padre dell’Universo!”
Come per compiere un sacrificio, comincia a sistemare le dita dei piedi della mamma. La fiammella si ravviva ad ogni preghiera che le borbotta nelle unghie prima di tagliarle. Ad ogni benedizione, le si rischiara il cuore. La mamma, lo sguardo chino, guarda quello che la donna le fa ai piedi, e ascolta le sue parole.
Dietro al candelabro che brucia, una corona di luce sembra sottrarre entrambe all’oscurità del luogo. Un capo chino sull’altro, i due volti bianchi risplendono, come purificati da un sacrificio.
Dopo aver reso lucide le unghie dei piedi della mamma, l’anziana donna alza il capo:
“Alta, adesso andiamo al bagno rituale” dice a bassa voce.
La mamma sospira, come se l’anziana donna le avesse comunicato un segreto. Entrambe, piano piano, si alzano, raddrizzano la schiena, tirano un respiro profondo, riprendono fiato: si potrebbe pensare che si apprestino a valicare la soglia del Santo dei Santi.
Nel buio si stagliano le due ombre bianche.
Io avevo paura di andarci. Si doveva passare per una stanza calda in cui, su lunghi sedili stavano distesi e soffrivano esseri torturati. Dall’alto li sferzano fumanti rami di frasche, inumiditi da gocce d’acqua calda. Da sotto le panche salgono respiri pesanti, come se tutte queste donne bruciassero su carboni ardenti.
Il calore mi entra nella bocca e mi afferra il cuore.
“E’ sicuramente l’inferno per quelli che hanno molti peccati”, mi dico, e corro svelta dalla mamma al bagno rituale.
Come in una prigione, scendo in una stanza buia.
Sopra una piccola passerella se ne sta la donna anziana. Con una mano porta il candelabro acceso, con l’altra fa ondeggiare un lenzuolo bianco.
La mamma, tranquilla, – avevo così paura per lei – scende i quattro gradini scivolosi, e si immerge nell’acqua fino al collo.
Quando la donna anziana pronuncia una benedizione, la mamma si spaventa. Come una condannata, chiude gli occhi, si chiude il naso e si immerge nell’acqua come se fosse per sempre.
“K-o-o-o-sher!” grida l’anziana donna, con voce da profeta.
Ho un sussulto come a uno scoppio di tuono. Trepida, attendo – di sicuro adesso un lampo cadrà dal buio del soffitto e ci ucciderà sul colpo. O forse dal muro di pietra si riverserà un diluvio e ci sommergerà nell’oscurità del bagno rituale.
“Ko-o-o-sher!” grida di nuovo l’anziana donna.
Dov’è la mamma? L’acqua non si muove più.
Ma, all’improvviso, il fiume sembra fendersi. La testa della mamma riemerge dall’acqua. Si scuote l’acqua di dosso come se uscisse dal fondo del mare. Tre volte l’anziana donna grida a pieni polmoni e tre volte la mamma sprofonda nell’acqua nera. Non ce la faccio più ad aspettare che la vecchia smetta di gridare e che la mamma non sparisca più nell’acqua.
Alla fine, è stanca. L’acqua le scorre giù dai capelli, dalle orecchie. Ma sorride. Esce dall’acqua come da un fuoco – pulita, purificata.
“Alta, che questo possa giovarvi e farvi bene”
L’anziana donna sorride allo stesso modo. Due lunghe braccia sottili tengono ben alto il lenzuolo e avvolgono la mamma come due grandi ali bianche; lei mi sorride come un angelo radioso.
Vestita, ancora fumante, mastico la mela gelata che ormai da tempo si è sciolta per il calore, e aspetto la mamma.
D’un tratto la mamma comincia a affrettarsi come se subito si ricordasse che è non è giorno di festa e che il negozio è ancora aperto.
La sacralità e il calore del bagno l’abbandonano. Veloce, si veste. Le donne le raccontano le loro ultime disgrazie: una le tende il vestito, l’altra, uno scarponcino. Hanno paura che, via la mamma, nei loro cuori restino ancora cose inespresse fino a giovedì prossimo. Con le mani tremanti, avvolgono il pacco della nostra biancheria, e avvolgono pure me, come un pacco.
Gonfia per il calore, posso appena muovermi. La mamma distribuisce le mance e ascolta le lunghe benedizioni con cui le donne ci accompagnano.
“Che questo vi giovi, Altinka! A giovedì prossimo, se Dio vuole! Buon rientro! Stammi bene Bachinka!”
Una grida più forte delle altre e tutte, prontamente, si ricoprono con i loro scialli.
La porticina si socchiude da sola, almeno così pare. Ci fermiamo per un momento sulla soglia. Che freddo! Dal cielo buio scende la neve. Le stelle, i fiocchi di neve risplendono…
E’ giorno o notte? Gli occhi vedono tutto bianco e freddo.
Sul cocchiere e sul cavallo è cresciuta una montagna alta e bianca. Si sono congelati? Il cocchiere sorride. Dalle folte sopraciglia gli cadono briciole di neve.
Il cavallo, rianimato, nitrisce.
“Buon rientro!” Gridano dalla casa dei bagni.
La slitta sussulta.
“Hop! Hop!” Il cocchiere frusta il suo cavallo magro.
Più veloce che all’andata, la mamma attraversa l’ingresso, lascia lì il pacco della biancheria. L’odore della casa, del negozio, le sferza il viso.
“Dio sa cosa è successo qui senza di me!”
Come una colpevole, corre a lavarsi il volto imporporato e si affretta, di nuovo, verso il negozio.
Mi dispiace che il bagno sia terminato così presto.
(traduzione di Maddalena Cavalleri Gobbi)