sabato 22 marzo 2008

LUCI ACCESE di BELLA CHAGALL: cap.XX LA VIGILIA DI PASQUA

LA VIGILIA DI PASQUA (cap. XX)
brano tratto da Lumières allumées di Bella Chagall, ed. Trois collines, 1948, tradotto da Maddalena Cavalleri con la collaborazione di Lorenzo Gobbi (in questo blog si può trovare il brano che racconta Il banchetto di Pasqua)
La prima a essere catturata dal vortice della Pasqua è Hava[1], la nostra grassa cuoca. Subito dopo il giorno di Purìm[2], inebetita, gira a vuoto. I giorni della settimana se ne vanno sotto terra. Un solo pensiero nella testa: una Pasqua santa. Sin dal mattino presto, tutta sottosopra, si precipita da noi nella sala da pranzo.
“Adesso basta, bambini! Finite veloci di fare colazione e fuori di qui! Sono arrivati i pittori”.
“I pittori, di già? Ma sapete quand’è, Pasqua? Il Messia può forse arrivare prima di Pasqua?”, brontolano i miei fratelli.
“Ebbene sì! Per il Messia, dobbiamo ridipingere la casa! - dice con una smorfia - Invece di predicare, aiutatemi piuttosto a spostare indietro gli armadi”.
“Gli armadi? Niente popò di meno! Una cosa da nulla! Chi sa cosa s’inventa, la nostra Hava! Chi può spostarli da lì?”.
Tutti insieme, facciamo forza contro l’armadio dei vestiti. Vacilla. Dentro, alla rinfusa, i vestiti neri si aggrovigliano con il cappotto di pelliccia di papà e con la volpe di mamma. Il pelo lungo pizzica e fa il solletico agli altri vestiti. Spingiamo l’armadio; ad ogni spinta, scricchiola, geme; le gambe corte grattano e si lasciano dietro una scia bianca.
“Ahi! Basta, fermatevi! - grida uno dei miei fratelli -Vedete Hava, cosa avete fatto! Una gamba si è già incurvata. Adesso, come lo rimettiamo al suo posto?”
“Ah! Signore dell’Universo! Cosa volete da me? Insomma, dobbiamo incollare la carta ai muri!”.
“Hava, ma volete andarlo a chiedere al rabbino se dobbiamo spostare tutta la casa?” – i miei fratelli tornano alla carica.
“Furba, lo sono da molto più tempo di te! Non prendetevela! Ho più cervello io nel mio tallone di quanto non ne abbiate voi tutti, in tutte le vostre teste messe insieme! - Hava s’infervora - Ecco una bella trovata: andare dal rabbino! Dovrei veramente andarci, a chiedergli com’è che ci sono dei simili epicurei
[3] in una casa di ebrei!”.
“Ci siamo! Hava è già arrabbiata!... Andiamo…” I miei fratelli si tirano per le maniche. “Piuttosto, andiamo a vedere in città come cuociono il pane azzimo!”
Subito Hava si gira verso la porta aperta e chiama: “Reb Yidle, Reb Nahman, entrate! cominciate dallo stanzino, dietro la sala da pranzo”.
Sbucano come da una nebbia due ombre bianche, quasi fossero lì ad aspettare il richiamo di Hava. Due pittori, tutti bianchi dalla testa ai piedi. Scarpe, capelli, guance, sopracciglia, tutti inzaccherati di puntini simili a briciole di neve. Uno ha una scala appesa alla spalla; in mano, un secchio di colore. L’altro sostiene a fatica con due mani, come Rotoli sacri, dei rotoli lunghi di carta da parati. I pittori, appena entrati, si precipitano nelle stanze. Spostiamo indietro i tavoli e le sedie: ci apriamo un varco. Sembriamo una compagnia di soldati che marcia con loro. In pochissimo tempo, occupano tutta la casa. Uno si arrampica sulla scala e gratta le cornici; l’altro sul tavolo e pulisce il soffitto con una grossa spazzola: gli cadono addosso schegge di intonaco.
“Ragazzina, vuoi assaggiare un po’ di calce?” Il pittore più giovane mi sorride, dall’alto della scala. La sua barbetta sporca di calce sembra incollata alle labbra bianche. Con loro, c’è allegria! Prima l’uno, poi l’altro, scoppiano a ridere. Cantano, fischiano, mescolano il colore, bagnano le spazzole. La tinta schizza e crepita. Rapidamente, avanti e indietro, uno dà un colpo di spazzola al soffitto; l’altro gli corre incontro: insieme passano i pennelli sul soffitto, come farebbero due uccellini con il loro becco. I pittori se la prendono con i muri. Sembra che vogliano strapparli dalla casa. La vecchia carta da parati cade a terra con fragore e trascina con sé pezzi secchi di intonaco. I muri spellati restano nudi, grattati, sporchi. Ai nostri piedi, colore ovunque. Carte strappate giacciono a terra con i loro fiorellini dipinti. I pittori saltano sopra, tagliano, incollano nuove colonne di carta da parati con nuovi fiorellini. La carta si imbarca, si gonfia, non vuole incollarsi ai muri. I pittori la sferzano con uno strofinaccio bagnato e la carta gonfia si distende su tutto il muro. La cameretta appena dipinta, tappezzata, risplende, tutta linda, come pronta per dei fidanzati. Ma per Hava nulla è ancora abbastanza santificato. Tappezza le pareti con lenzuoli bianchi come se le ricoprisse con scialli di preghiera
[4]. Anche sul pavimento di legno distende un lenzuolo: adesso, per lei, ci si potrebbe portare anche l’Arca Santa.
La prima cosa che portiamo, sono delle ceste di pane azzimo. Due ceste larghe, alte, avvolte con dei panni: ciascun pane azzimo sembra avvolto in un panno. Havah, tutta agitata, corre avanti, indica la strada.
“Attenzione! Qui!... Fermi! Qui, ci sono due gradini. Abbassate piano le ceste. Attenzione, mio Dio! che il pane azzimo non si rompa!”.
Corre attorno alle ceste, tocca, bisbiglia qualcosa, come una benedizione.
“Bene! Con il pane azzimo, un po’ di Pasqua è già entrata in casa”.
Un terzo uomo con la barba lunga, bella, porta per papà una cesta di pane azzimo della vigilia di Pasqua. La stringe tra le braccia, come se portasse le Tavole della Legge. L’uomo non dice una parola. Guarda da tutte le parti, poi nota sul soffitto un gancio da lampada: la appende lassù, in alto, in modo che nessuno ci possa respirare sopra con l’alito di lievito
[5]… La cesta è così ben avvolta di bianco che i vimini non si vedono.
Da questo momento, niente può più entrare nello stanzino. Soltanto Hava può cincischiare laggiù, nelle sue pantofole a treccia. Diventa la signora della cameretta e tutta la famiglia si sottomette senza una parola. Quando Hava passa per la casa, con un grembiule bianco legato addosso, un fazzoletto bianco sul capo, lo sappiamo: va nella piccola stanza. Il viso è teso come se laggiù si preparasse a rovesciare il mondo. Noi ci intrufoliamo da dietro, ma lei si chiude dentro. Ci sbatte la porta sul naso. Ci sediamo su uno degli scalini che portano alla cameretta e ascoltiamo il martellare del pestello di legno.
“Hava! - la supplichiamo attraverso il buco della serratura - Lasciateci entrare! Vi aiuteremo a macinare il pane azzimo”.
Il pestello batte, batte, come se volesse batterci sulla testa.
“Hava! Lo giuriamo! Abbiamo le mani pulite. Le abbiamo appena lavate!”
Il pestello batte ancora più forte. Forse non ci sente? Diamo un colpo alla porta, a ogni colpo di pestello.
“Hava! Cosa vi fa se anche noi, una volta, battiamo con il pestello?”.
Di colpo, la porta si spalanca. Ci spingiamo indietro, ci rovesciamo quasi sui gradini. Sulla soglia, la cuoca si fa sempre più grande, furente, come una nuvola giunta di corsa. Irriconoscibile. Sembra uscire da un mulino, ricoperta di farina.
“Cosa avete da starmi appiccicati addosso? Lasciatemi tranquilla, furfanti! Cosa volete? Contaminarmi in questo modo la Pasqua
[6]! Sciocchi che siete!” sbuffa con il suo fiato bianco. “Ah sì! Che vi lascio venire! E poi cosa ancora? Battere il pane azzimo con mani impure! Non ce la fate ad aspettare fino alla festa? Fuori di qui! …” Con le narici, ci spruzza addosso una nuvola di farina. “Che non vi passi per la testa di avvicinarvi alle ceste!”.
Ha sfogato la sua collera e si è precipitata di nuovo dentro lo stanzino. Il chiavistello si chiude e fa rumore. Di nuovo, ci incolliamo alla porta, appoggiamo gli orecchi al buco della serratura. Dall’interno, adesso, si sente come lo sciabordio di un’acqua tranquilla che si trascina dietro una montagna di sabbia.
“Hava, dateci anche un po’ di farina azzima da setacciare, Hava!”. Mette fuori il capo e, come raggiunta dal fuoco, si scosta da dov’è.
“Allora la smettete sì o no? – grida – La mollate, questa porta?”.
Un gran setaccio pieno di pezzettini di pane azzimo non macinati dondola sul suo ventre. La farina si sparge giù come pioggia sottile: sembra caderle dalla pancia. Uno dei miei fratelli le capovolge il setaccio.
“Ahi! Mascalzone! - dice Hava esasperata - Che le tue mani si secchino! Mongolo!”.
Con la mano già alzata, si ferma e si ricorda che ha in grembo un setaccio di Pasqua.
“Ahi! Maledetti i miei anni! - comincia a gemere - Signore Onnipotente! Già così non so dove sbattere la testa a forza di lavorare! Cos’avete da girare qui? Chi vi ha chiamati?”.
“Ma vogliamo essere d’aiuto…!”.
“Ma cosa mi importa cosa volete! Per quel che ho bisogno di voi! E come mai siete diventati improvvisamente così appiccicati? Una vera famiglia! Vediamo, chi dei due avrà la meglio? Che qualcuno provi ad avvicinarsi alla stanza e io gli….”.
Strana donna! Non fa che imprecare. Quando Hava si lascia andare, è meglio non fermarla. Possiamo prenderci due belle sberle… Può andarlo a dire anche al rabbino… Sa che il rabbino, papà, mamma, tutti le daranno ragione, purché la Pasqua avvenga secondo il rito! Lasciamo Hava tranquilla.
Si calma e si trascina di nuovo verso la cucina. Ad ogni passo, si lascia dietro una traccia bianca di farina, simile a quella di un animale sulla neve… Presto la sentiamo incamminarsi verso la via del ritorno. Tutta curva, trasporta un barile di barbabietole. Il barile oscilla, il succo di barbabietola freme: delle gocce rosse schizzano fuori dove passa. Hava è sfinita. Le gambe grosse sono gonfie. Come possiamo aiutarla? Per lei, tutti sono impuri. Nessuno può avvicinarsi a nulla.
“Hava, dateci da assaggiare almeno un po’ di succo. Sarà più facile da sopportare”. Le corriamo dietro. Agita il capo. Il viso muta dal rosso al nero. Gli occhi si direbbero tasche gonfie di cenere umida. Basta un pizzicotto, e le sgorgano subito le lacrime.
“Ahi!” Hava non si trattiene più. Senza volere, emette un sospiro. “Ahi! Le mie gambe mi uccidono!”. Ancora prima di raggiungere lo stanzino, Hava, di colpo, molla il barile. Resta in piedi, quasi senza conoscenza; fa cenno con la mano di non avvicinarsi al barile…
“Va’ a chiedere scusa!”
“No, tu! Va’ prima tu, parlerai meglio!”. Ciascun fratello spinge l’altro.
Hava si torce le mani.
“Chi può sapere che mani avete! Probabilmente sono piene di lievito!”.
“Cosa? Come? È tanto che non mettiamo qualcosa in bocca!”.
E d’un tratto, solleva il barile. Havah trattiene le lacrime. Se potesse, ci purificherebbe tutti seduta stante.
“Mio Dio, questi bambini! Sempre assaggiare, sempre a leccare!”

Lo stanzino di Pasqua si riempie di dolci gioiosi. Ci tenta, ci attira. Perché Hava deve assaggiare da sola tutte quelle cose buone? Non possiamo permetterglielo. Ma lei, come una gatta, tira l’orecchio. Non ci andiamo? Ha paura di lasciare lo stanzino incustodito. Ci dorme forse anche la notte? Noi bambini ci riuniamo tutti intorno e bisbigliamo. Hava spunta continuamente vicino a noi.
“Cosa ci fate qui? Cosa volete fare?”.
“Nulla! Siamo qui in piedi!”.
“Perché state in piedi qui fermi? Andrete di sicuro da qualche parte!”.
“Da nessuna parte! Dove possiamo andare?”.
Lei brontola e va a vedere cosa succede nello stanzino. Ogni giorno, portano lì prima zucchero di Pasqua, poi sale, noci, prugne, mandorle. In tutti gli angoli, sono sistemati sacchi di tela. Pare che Hava si diverta ad ammassare tutte queste cose buone. Lo fa per farci dispetto. Strana donna! Sin dal primo giorno di Pasqua, ci rimpinza al punto che ci dobbiamo tenere la pancia. E là, ci tormenta l’anima. Ogni giorno è la stessa storia. Abrachka gira intorno alla porticina, si avvicina correndo, si salva.
“Batchka, sembra che oggi abbiano portato dell’uva da Corinto!”.
“No! sa piuttosto di prugne!”.
Hava ci afferra all’istante.
“Cosa avete da annusare qui?”.
“Non si può neanche annusare?”.
“Andate a soffiarvi il naso da qualche altra parte. Se no farò a meno di cucinare qualcosa di buono per la festa. Che cosa potrà mai riuscir bene se vi lascio stare qui?”
Prima se la prende con le casseruole. Per purificarle. In cucina, ogni giorno, spariscono una dopo l’altra, le pentole di rame. Per tutto l’anno, tutte le pentole e casseruole di rame se ne stanno allineate sulla mensola in alto, come generali a una parata. Brillano, luccicano e dalla loro altezza mandano bagliori di fuoco. Verso Pasqua, ormai opache, Hava le tira giù dalla mensola prendendole per la coda: per i manici neri e bruciacchiati. Le trascina dallo stagnino per purificarle. Anche la vecchia brocca dello Shabbat e il samovar usato dove non si versa più neanche una goccia d’acqua, lei li purifica proprio come il samovar che ha bollito e ribollito per giorni e giorni. Forse da lì verrà fuori un pizzico di lievito? Gli utensili da cucina purificati si ricoprono, al loro interno, di una nuova pelle. Hava li porta nello stanzino e li avvolge ciascuno in un panno a parte
[7]. I panni emanano come una brezza di emozione sul resto della casa.
“Bachinka, tu sei già una ragazza grande, tieni, ecco la chiave, va’ e controlla bene l’armadio dei bicchieri. Mi sembra che l’anno scorso ne abbiamo rotto qualcuno”.
Fuori dallo stanzino, Hava adesso dà gli ordini. Un armadio tutto per la Pasqua è incastrato nel muro della sala da pranzo. Rimane chiuso tutto l’anno. Ci si dimentica che è pieno di vita. Apro le ante. Ne esce un odore di cose vecchie. Piatti, calici, bicchieri rinchiusi si destano.
“Cosa manca? Un bicchiere? Un calice?”.
Mi arrampico su di una sedia, ficco la testa dentro alle tre mensole. Conto i calici. Ce ne sono abbastanza per tutti? Faccio il calcolo a mente come se vedessi già ognuno seduto al suo posto. L’armadio dei bicchieri scintilla. Da tutte le parti, bicchieri e porcellane tempestate d’oro. Una mensola di calici. Abbagliante. Bicchieri: grossi, sottili, alti, piccoli. Si guardano gli uni gli altri come in uno specchio. Da un lato, se ne stanno in piedi, profondamente pensosi, resi opachi dai colori del loro cielo, rossi e blu, cristalli di Boemia. L’aroma del vino dell’anno scorso non è ancora svanito. Una spanna sopra gli altri si eleva, come un Re, il calice del Profeta Elia. Lo tocco appena. Ad ogni Pasqua, ho paura che si rompa per tutto il vino che ci versano. Anche se vuoto, sparge intorno bagliori rossi, come gocce di vino. Mi immagino seduta su di un albero su cui cantano e becchettano uccelli rossi e blu che non conosco. Le larghe bottiglie rosse aggiungono ancora più fuoco. Nel loro vetro scarlatto, un’acqua semplice diventerà rossa come sangue. Che succederà quando tutte queste bottiglie e calici verranno posti sulla tavola del banchetto, colmi di vino? La tovaglia bianca si accenderà. Un incendio divamperà. I miei occhi stanchi si arrampicano fino a un’altra mensola. Là, una zuppiera larga, decorata di fiori rossi. È pesante, come sollevarla? Adesso capisco perché le mani di Hava crocchiano quando la porta a mamma colma di brodo e polpettine cicciotelle, che galleggiano come tanti bimbi, col pancino in aria. Vicino alla zuppiera, ci sono dei piatti, un intero negozio di piatti! Controllo quelli più piccoli che si usano per servire cose buone agli invitati. Il mio compito è offrirle. Mi immagino dove devo disporre i dolci di nocciole e di miele, poi le focacce e le mandorle. Al centro di ogni piattino, una mela o una pera dipinte. Colpiscono gli occhi, come fosse frutta vera. Mi confondono. Tutto a un tratto, vedo, da una parte, impacciato, un bricco da latte con il beccuccio spezzato. Mi guardo intorno. Non ce n’è un altro. Quando tornerò al negozio, dirò a mamma che dobbiamo comprarne uno nuovo. Lei mi griderà dietro: “Cos’hai da rompermi la testa con il tuo bricco? Qui, fatichiamo come cavalli per guadagnare quattro soldi e a casa si continua a rubare e a rompere”.
Forse è meglio non parlarne con mamma. Dove troverò ancora un bricco blu come quello, che stia bene con la zuccheriera?

Se vado nel negozio di porcellane, mi perdo. L’aria vibra di tutti i suoi cristalli esposti. Mi specchio ovunque. In un bicchiere, una metà del viso, in un altro mi si allunga il naso, qui si appiattisce. Vicino a me, il proprietario, un uomo alto e grosso. Il suo abito nero non fa intravedere alcun oggetto di cristallo. Si muove tra le cose con leggerezza, toccandole con gli occhi. Ogni tanto, dà un buffetto a un bicchiere. Lo fa per assicurarsi che la merce sia intatta o per stupirmi, per mostrarmi una sua prodezza? Al suo tocco, il bicchiere risuona come un grido nello spazio. Il suono si propaga per tutto il negozio. Tutto il vasellame vibra. Alza il dito, il suono va a rannicchiarsi da qualche parte, in un angolo e poi, di nuovo, il silenzio. Si sentono solo i nostri passi. Dimentico quello che devo comprare. Hava mi ha chiesto di portarle qualcosa per la cucina.
“Guarda! - sussurra al mio orecchio il negoziante - “Guarda i nuovi bicchieri da liquore. Sono appena arrivati. Carini, vero?”. Me li butta lì senza badarci, e mi gira ancora di più la testa. I bicchierini sottili mi fanno l’occhiolino come teneri fiori. Possono scivolare giù dalla mensola, al primo soffio di vento. Il loro vetro affusolato è una tentazione. Verrebbe voglia di posarli sulle guance, sulla bocca. La voce di Hava risuona nelle orecchie:
“Ancora dei bicchierini?Per farne cosa? Per chi? Non c’è nemmeno il posto per metterli. Ma hai dimenticato di comprare per me qualche piatto semplice semplice? A cosa serve un bicchierino come questo?”.
Hava alza un bicchierino in controluce. “Guarda! Si scioglierà nell’acqua! Quanti di questi bicchierini mi sono rimasti tra le mani, nello strofinaccio?”.
“Ma sono davvero bellini! Non avevo il coraggio di lasciarli in negozio…”
Che mi gridino pure dietro! Non ci sono altre cose superflue in casa?

NOTE AL TESTO di Lorenzo Gobbi[1] Hava significa “sorriso, risata”, ed è un nome femminile molto diffuso.
[2] Simile al nostro carnevale, è una festa gioiosa che ricorda la salvezza degli ebrei per opera della regina Ester: precede di poco la festa di Pasqua.
[3] “Epicureo” significa propriamente seguace della dottrina del filosofo greco Epicureo (III-II sec. a. C.), che negava la provvidenza degli dei e l’immortalità dell’anima; in senso popolare, significa “miscredente”, “libertino”.
[4] Per pregare, soprattutto nella sinagoga ma anche a casa, gli ebrei indossano uno scialle particolare, detto tallèt, di colore bianco con righe azzurro scuro ai bordi e frange ai quattro lati che ricordano i precetti della Bibbia; solo un ebreo circonciso adulto può indossarne uno.
[5] Prima della Pasqua, le regole del rito ebraico impongono di eliminare dalla casa ogni traccia di chamètz, cioè “lievito”: per questo, gli ebrei puliscono perfettamente la casa, spostando i mobili e rivoltando i materassi (da qui, la tradizione della pulizie di primavera, che sono un uso ebraico). Per chamètz si intende non solo il lievito propriamente detto, ma tutto ciò che è cibo e può andare a male: briciole di pane, dolci, farina, pasta, riso… solo il sale non va a male, e per questo, nella cena di Pasqua e nei riti della vigilia del Sabato, rappresenta il Patto di alleanza tra Dio e il suo popolo (il patto si chiama, in ebraico, Berìt). La preoccupazione dell’uomo è che, tramite il fiato o la saliva delle persone, qualche minima traccia di chamètz raggiunga il pane, rendendolo meno santo.
[6] La preoccupazione di Hava è che, con le mani non lavate, i ragazzi possano portare nella stanza dove lei prepara il pane per la Pasqua delle tracce di Hamètz, e così rendano impuro, contaminato dallo chamètz, ciò che lei sta preparando.
[7] E’ importantissimo che gli utensili da cucina che verranno usati per preparare la cena di Pasqua non si contaminino in nessun modo, dopo essere stati puliti: non devono, cioè, venire in contatto con cibo o resti di cibo (con tutto ciò che è chamètz). Per questo, appena puliti (cioè appena purificati) vengono avvolti in panni bianchi puliti).


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