sabato 22 dicembre 2007

FRANÇOIS-RÉNÉ DE CHATEAUBRIAND: UN ARISTOCRATICO A GERUSALEMME – 1806 (4^ parte) SBARCO A GIAFFA













Foto1 - Jafa Port (1936 – http://www.eliaphoto.com/)
Foto 2 - Jafa Port (1936 – http://www.eliaphoto.com/)
Foto 3 - Jafa bringing goods (http://www.eliaphoto.com/)
Foto 4 - Jafa Caravan (http://www.eliaphoto.com/)
Foto 5 - Monastero di San Saba (1934 – http://www.eliaphoto.com/)
Foto 6 - Monastero di San Saba oggi in Cisgiordania
Foto 7 - Il Mar Morto (2006)
Foto 8 - Il deserto lungo le rive del Mar Morto (2006)

Dopo una traversata durata tredici giorni da Costantinopoli, Chateaubriand sbarca a Giaffa il 1°ottobre del 1806, con il suo domestico Julien: “Giaffa presenta solo un brutto ammasso di case radunate in cerchio e disposte ad anfiteatro sul pendio di una costa rialzata[1]”: così Chateaubriand ci descrive la città dalla nave. Il minareto della moschea si mostra chiaro al suo orizzonte, ma ogni cosa, per lui, esiste in funzione del Vangelo e delle Sacre Scritture: la terra è lì per dare testimonianza degli avvenimenti divini che vi sono accaduti e la stessa popolazione autoctona è funzionale alla grandezza evangelica. Infatti, prima ancora di sbarcare a Giaffa, incontriamo l’Arabo che la scrittura di Chateaubriand trasfigura: non un uomo qualunque che si dà da fare per portare a casa qualche moneta grazie ai viaggiatori venuti a visitare la sua terra, ma un rappresentante della razza Araba che, in attesa del vascello, ha il grande privilegio di calpestare la riva che, un tempo, è stata testimone dei miracoli di Gesù.

L’Arabo, che erra su questa costa, segue con occhio avido il vascello che passa all’orizzonte: attende le spoglie del naufrago sulla stessa riva in cui Gesù Cristo ordinava di dar da mangiare agli affamati e vestire gli ignudi. […]
Dei caicchi avanzarono presto da tutte le parti, per cercare i pellegrini: i vestiti, i tratti, la carnagione, l’aspetto del loro volto, la lingua dei padroni di queste imbarcazioni, mi annunciarono subito la razza araba e la frontiera del deserto. […]
Gli Arabi dalla riva procedettero nell’acqua fino alla cintura, al fine di caricarci sulle loro spalle.
[2]

L’occhio “avido” mostra già tutto il pregiudizio dell’occidentale. Degli Arabi è bene non fidarsi, è Padre Giovanni dell’Hospice des Pères di Giaffa a dirlo: egli consiglia al nobile pellegrino francese e al suo domestico Julien, di rimanere sempre guardinghi nei confronti della popolazione locale. I due viaggiatori, infatti, devono sapere che gli Arabi si manifestano gentili con i turisti, solo per depredarli meglio; quindi, per raggiungere Gerusalemme, è prudente che indossino gli abiti dei pellegrini e che tengano nascoste le armi sotto le vesti. Ma non è per la strada verso Gerusalemme che i due stranieri saranno aggrediti dai beduini del deserto, ma nel cammino verso il Mar Morto nei pressi del convento greco-ortodosso di Mar-Saba: fortunatamente tutto si risolve al meglio, grazie all’intervento della loro scorta e del monaco greco ortodosso.
Fascino, paura, disprezzo sono i sentimenti che Chateaubriand prova nei confronti degli Arabi di cui subisce, a tratti, il fascino: l’immagine più orientale e poetica di questo popolo, egli l’esprime quando una notte, mentre riposa in riva al Mar Morto, vede degli arabi seduti in cerchio con i fucili deposti al fianco che, assorti, ascoltano il racconto dello scheick: nel loro atteggiamento, vede confermata la grande passione che gli arabi e i beduini del deserto hanno per il racconto[3]. Anche il giovane Maxime Du Camp, circa quarant’anni dopo, subirà lo stesso fascino.

"Tutto ciò che si dice della passione degli Arabi per il racconto è vero, e ne citerò un esempio: durante la notte che avevamo appena trascorso sul greto del Mar Morto, i nostri Betlemmiti stavano seduti attorno al fuoco, i fucili distesi a terra al loro fianco, i cavalli attaccati a dei paletti che formavano, all’esterno, come un secondo cerchio. Dopo aver bevuto il caffè e parlato molto assieme, quegli Arabi caddero in silenzio, fatta eccezione per lo scheick. Vedevo, al bagliore del fuoco, i gesti espressivi, la barba nera, i denti bianchi, le svariate forme che faceva la sua veste mentre questi continuava il racconto. I compagni lo ascoltavano con un’attenzione profonda, tutti protesi in avanti, il viso verso la fiamma, a volte gettando un grido di ammirazione, a volte ripetendo con enfasi i gesti del narratore; teste di alcuni cavalli venivano in avanti al di sopra del gruppo e si disegnavano nell’ombra, finendo col donare a quel quadro il più pittoresco dei tratti, soprattutto allorquando veniva ad aggiungersi un angolo del paesaggio del Mar Morto e delle montagne della Giudea.
Avevo studiato con tanto interesse sulla riva dei laghi le orde americane, ma quale altra specie di selvaggi potevo contemplare qui!
Avevo sotto gli occhi i discendenti della razza primitiva degli uomini, li vedevo con le stesse usanze che hanno conservato dai giorni di Agar e di Ismaele."
[4]

Nonostante l’ammirazione che prova nei confronti di questo quadro dipinto nel deserto, Chateaubriand manifesta un sentimento di superiorità nei confronti degli Arabi - abitanti del luogo - che restano, comunque per lui, dei “selvaggi”. Lo si percepisce, a mio avviso, anche dalle semplici descrizioni che ci offre in altri punti del suo Itinéraire: gli uomini hanno un portamento nobile e fiero ma i loro denti ricordano quelli degli sciacalli; le donne sono belle se osservate da lontano ma non da vicino, anche se si avverte qualcosa di delicato nei loro modi – Solo l’antica origine della stirpe sembra aggiungere gradi di nobiltà ai “selvaggi” che l’aristocratico incontra in Palestina:

Avevo sotto gli occhi i discendenti della razza primitiva degli uomini, li vedevo con le stesse usanze cha hanno conservato dai giorni di Agar e di Ismael; li vedevo nello stesso deserto che era stato assegnato loro da Dio in eredità: Moratus est in solitudine, habitavitque in deserto Pharan [5]. Li incontravo nella valle del Giordano ai piedi delle montagne di Samaria, sui sentieri di Ebron, nei luoghi in cui la voce di Giosuè fermò il sole, nei campi di Gomorra ancora fumanti della collera di Jéhovah, e che consolarono in seguito le meraviglie misericordiose di Gesù Cristo. Ciò che distingue soprattutto gli Arabi dai popoli del Nuovo Mondo, è che attraverso la natura rude dei primi si avverte tuttavia qualcosa di delicato nei loro costumi, si sente che sono nati in questo Oriente da dove sono emerse tutte le arti e tutte le scienze, tutte le religioni."[6]

Qualche riga più in là, Chateaubriand propone un parallelismo rivelatore tra il “selvaggio” che ha incontrato durante il viaggio in America e il “selvaggio” di Palestina: l’arabo. Entrambi sono selvaggi, ma con dei distinguo: se l’americano deve ancora raggiungere lo stato di civiltà, l’arabo l’ha già raggiunto ma anche già perduto.
Il selvaggio Americano non è ancora giunto allo stato di civiltà, tutto presso l’Arabo indica l’uomo civilizzato ricaduto nello stato selvaggio[7]”.
Lo sguardo dell’aristocratico francese è lo sguardo del colonialista che considera inferiori i popoli che ha incontrato durante i suoi viaggi. Ma, ai suoi occhi, se i selvaggi d’America sono stati resi più civili dalla religione cristiana, quelli di Palestina, proprio perché hanno rifiutato la vera religione - nonostante il grande privilegio di essere nati nella Terra scelta da Dio per la sua Incarnaziome – sono ricaduti nello stato selvaggio.

I temi sono attualissimi. A questo riguardo, il libro dell’intellettuale palestinese Edward Said, Orientalismo è un contributo preziosissimo per capire, riflettere, cercare di considerare le diverse sfaccettature della complessa questione.
Io stessa, dopo aver mentalmente viaggiato con alcuni viaggiatori d’Oriente in Palestina - l’aristocratico Chateaubriand nel 1806, i due borghesi intellettuali Maxime Du Camp e Gustave Flaubert nel 1849-51, e l’ufficiale militare Pierre Loti nel 1894 - ho avvertito la necessità di andare a rileggermi l’intellettuale arabo-palestinese, per cercare di capire quanto ancora questo sguardo sull’Oriente influenzi, a volte quasi inconsciamente, il nostro modo di guardare l’altra sponda del Mediterraneo, sebbene siano trascorsi più di due secoli.
Riporto di seguito alcuni stralci del suo libro, che chiariscono le intenzioni dell’autore e del suo studio:

"Orientalismo: vale a dire un modo di mettersi in relazione con l’Oriente, basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza europea occidentale. L’Oriente non è solo adiacente all’Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. E ancora, l’Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente). Nulla, si badi, di questo Oriente può dirsi puramente immaginario: esso è una parte integrante della civiltà e della cultura europee persino in senso fisico.”[8]

Orientalismo: “Quasi tutto ciò che essi [Napoleaone e Lesseps[9]] sapevano dell’Oriente veniva dai libri appartenenti alla tradizione orientalista, dagli scaffali della relativa biblioteca di “idées reçues”; […], l’Est in carne e ossa era qualcosa che si poteva incontrare e affrontare perché i testi rendevano possibile tale esperienza. Si trattava di un Oriente muto, utilizzabile dall’Europa per la realizzazione di progetti, che coinvolgevano, senza mai renderle partecipi, le popolazioni indigene, incapace di opporre resistenza ai piani, ai significati, e persino alle mere descrizioni che a esso venivano sovrapposte.”[10]

"Orientalismo è un ripensamento di quello che per secoli è stato ritenuto un abisso invalicabile tra Oriente e Occidente. Il mio scopo non era tanto eliminare le differenze – chi mai può negare il carattere costitutivo delle differenze nazionali e culturali nei rapporti tra esseri umani? – quanto sfidare l’idea che le differenze comportino necessariamente ostilità, un assieme congelato e reificato di essenze in opposizione, e l’intera conoscenza polemica costruita su questa base. Ciò che auspicavo era un nuovo modo di leggere le separazioni e i conflitti che avevano provocato ostilità, guerre e l’affermarsi del controllo imperialista.”[11]

Edward Said, (un sito utile per saperne di più: http://www.rainews24.it/ran24/rubriche/incontri/autori/said.asp) in Italia, non è ancora noto al grande pubblico, è conosciuto tra le persone che si occupano di Medio Oriente, e nemmeno tra tutte! In Israele, è stato sicuramente quasi più letto che in Palestina/Territori Occupati in quanto lo stesso Arafat aveva proibito la diffusione dei suoi libri.
Nel saggio, Said ripercorre il viaggio e lo sguardo dei diversi viaggiatori occidentali in Oriente. Si sofferma a parlare di Chateaubriand, molto del viaggio in Egitto e Palestina di Flaubert con l’amico Maxime Du Camp, ma gli sfugge l’antisemitismo di Pierre Loti. Forse Said non aveva letto il suo diario a Gerusalemme dove Loti si lascia andare a delle forme di antisemitismo davvero impressionanti. Siamo nella primavera del 1894, dopo qualche mese scoppierà l’Affaire Dreyfus e Pierre Loti, non dimentichiamolo, è un militare.
Oggi in Francia si assiste, da parte di alcuni critici, ad una rivalutazione di questo scrittore minore che tanto impressionò Van Gogh e già molte sono le voci che si stanno sollevando contro, soprattutto quella gli Armeni di Francia; ma riprenderò l’argomento quando, in un altro post, mi occuperò del pellegrinaggio di Pierre Loti in Terra Santa.

Qualche giorno fa, mi è capitato di leggere un articolo sulla rivista Terrasanta del giurista e storico palestinese prof. Abdul Hadi che collabora al Palestinian Academy Society for the Study of Interbational Affairs (Passia, http://www.passia.org/) e pensavo a quanto ancora ci sia in noi Europei un po’ (solo un po’?) di Chateaubriand nei confronti degli Arabi di Palestina, sebbene siano trascorsi due secoli.
Alla domanda: “Che cosa vi aspettate dall’Europa?”, il professore risponde: “ Quel che è andato storto finora fra i palestinesi e l’Europa è che gli europei non ci hanno trattato come partner. Hanno adottato il rapporto di sudditanza che c’è fra donatori e beneficiari: con il paternalismo dei finanziatori che danno fondi senza preoccuparsi eccessivamente di formare degli esperti che diventino autonomi. Oggi tutto questo può cambiare: ci vorrà molto tempo , ma ci aspettiamo che l’Europa possa aiutare i palestinesi ad aiutare se stessi nel realizzare quei valori che hanno fatto grande la storia europea:libertà, solidarietà, uguaglianza, indipendenza, democrazia, formazione, Stato di diritto”(Rivista di Terrasanta, numero 6, novembre-dicembre 2007, p. 18 - http://www.terrasanta.net/)

La strada è decisamente in salita.


N.B.
Tutti sappiamo quanto la questione di Israele e Palestina sia complessa e dolorosa per i due popoli. Parlare di “muro” o di “barriera difensiva” dà già il punto di vista che si è scelto nel definire ideologicamente la realtà di cui si parla.
Quando scrivo del viaggio di Chateaubriand in Palestina, intendo la Palestina geografica, ovvero la Palestina del XIX secolo ancora sotto il dominio dell’Impero Ottomano.
Oggi la Palestina come Stato vero e proprio non esiste ancora: esiste invece l’Autorità Nazionale Palestinese che controlla i Territori occupati (ovvero la Cisgiordania/West Bank) e Gaza (che oggi è per lo più sotto il controllo di Hamas in forte tensione con l'ANP).
Giaffa, sin dal 1948, fa parte dello Stato di Israele.

[1] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, Suivi du Journal de Julien, Gallimard, Folio classique, juin 2005. Edition et commentaires de J.-C. Berchet, p. 280
[2] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. p. 280
[3] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp. .331-332
[4] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem et de Jérusalem à Paris, op. cit. pp. 331-332
[5] Genèse XXI, 20-21: “Ismael abiterà lontano dai paesi abitati (…) stabilì il suo soggiorno nel deserto di Pharan” Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem… op. cit. p. 693 (nota)
[6] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem…op. cit. pp. 332
[7] Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem…op. cit. pp. 333
[8] Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, 2001, pp.11-12.
[9]Ancor oggi è viva la querelle per l’attribuzione del progetto tecnico del Canale di Suez tra il francese Ferdinand de Lesseps e l’italiano Luigi Negrelli.
Napoleone il 19 maggio 1798 si imbarca a Tolone per l’Egitto, portando con sé 170 “savants”: si tratta della celeberrima campagna d’Egitto. Gli archeologi, gli astronomi, linguisti, storici e botanici che si erano aggiunti alla spedizione avevano come unica giustificazione quella di dare un supporto intellettuale e attirare la buona considerazione dell’Istituto nei confronti del futuro Napoleone.
[10] Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, 2001, pp.99.
[11] Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, 2001, dalla postfazione






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