domenica 11 novembre 2007

L’ORA DELLA MANO VUOTA

Ricordo un tempo, quando vivevo sola in via Lastre a Verona. Insegnavo francese dalle suore e trascorrevo le ore delle mie giornate a rimettere insieme pezzi della mia vita. Nella ricomposizione del mio mosaico, i libri hanno avuto un’importanza fondamentale. Un ascolto profondo. A casa, portavo solo libri di autori che avevano un timbro di scrittura sincero. Niente intellettualismi sterili e narcisistici: avevo bisogno di voci pure, pulite, che portassero un po’ di chiarezza nella mia vita: avevo bisogno di qualcuno che venisse a casa mia e che scostasse dal mio tavolo le cose che mi impedivano di vedere (giusto per citare un po’ Bobin, che a quel tempo, non conoscevo ancora!)
Era il 1995.
Molti anni più tardi, nel suo libro Francesco e l’infinitamente piccolo, ho ritrovato "l'ora della mano vuota".
Ne trascrivo qui alcune parti.
Il primo brano è tratto dal capitoletto Qualche parola piena d’ombra dove Francesco malato “si gira e rigira nella sua vita” perché sente che deve cambiare qualcosa.
Si gira e rigira nel letto. Si gira e rigira nella sua vita. Le lenzuola sono gualcite, sgradevoli al tatto, sfregano la pelle, le loro pieghe arrossano la carne. La vita è logora, meno piacevole da godere, sfrega l’anima, rovina il sogno. Non vi è nessuno con cui poterne parlare. Non vi è nessuno a cui confidare che si vorrebbe abbandonare questa vita per un’altra, e che non si sa come fare. Come dire ai vostri cari: il vostro amore mi ha fatto vivere, ora mi uccide? Come dire a quanti vi amano che non vi amano?
Due parole vi fanno venire la febbre. Due parole vi inchiodano al letto. Cambiare vita. Ecco la meta. E’ chiara, semplice. Ma la strada che conduce alla meta non la si vede. La malattia è l’assenza di una strada, è l’incertezza della via. Non si è di fronte a un dilemma, vi si è dentro. Siamo noi stessi il dilemma. Una nuova vita è ciò che si vorrebbe, ma la volontà, appartenendo alla vecchia vita, non ha forza alcuna. Si è come quei fanciulli che tendono una biglia nella mano sinistra e non lasciano la presa finché non son certi di avere in cambio una moneta nella mano destra: si vorrebbe una vita nuova, ma senza perdere la vecchia. Si vorrebbe non conoscere l’istante del passaggio, l’ora della mano vuota.
Ciò che vi rende malati è l’approssimarsi di una salute più grande della salute ordinaria, con essa incompatibile. Ma si continua a resistere. Tutto vi trattiene, la madre, gli amici, le giovani dame. Non la si ama più questa vita, ma almeno si sa di che è fatta. Se la si lascia, vi sarà un momento di cui non si saprà più niente. Ed è questo niente che vi spaventa. E’ questo niente che vi fa esitare, brancolare, balbettare, ed infine tornare alle vecchie strade.
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, p. 44)

Il secondo brano è tratto dal capitoletto intitolato “Guardami, me ne vado” dove Bobin ci narra il momento in cui Francesco decide di partire, di lasciare tutto. Sullo sfondo il Qohelet e la consapevolezza che il passaggio di un tempo e all’altro tempo, non può non passare dall’ora della mano vuota.
C’è un tempo in cui i genitori nutrono il fanciullo, e c’è un tempo in cui gli impediscono di nutrirsi. Il fanciullo è il solo a poter distinguere fra questi due tempi, il solo a trarne la logica conclusione: partire. Non lottare. Soprattutto, non lottare: partire. Nulla è più rischioso per un figlio che resistere al proprio padre: opporsi a qualcuno significa diventare un po’ come lui. I figli che si fortificano lottando col padre finiscono stranamente col somigliargli al tramonto della loro esistenza.
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, p. 53)

Nel lontano 1995, ho scritto anch’io il mio Qohèlet.
(Lorenzo ha voluto riportarlo nel nostro libretto di nozze che abbiamo donato come cadeau agli amici). Lo trascrivo qui :
C’è un tempo per sognare
e un tempo per aprire gli occhi,
un tempo per giocare
e un tempo per crescere.
Un tempo per essere amati
e un tempo per rimanere soli,
un tempo per sentirsi soli
e un tempo per desiderare di essere soli
un tempo per fuggire da se stessi
e un tempo per abbracciare se stessi,
un tempo per non vedere l’altro
e un tempo per riconoscerlo.
Un tempo per calpestare i segni
e un tempo per raccoglierli,
un tempo per sfuggire a Dio
e un tempo per lasciarsi amare da Dio.
C’è un tempo per nascere
e un tempo per morire,
dove morire vuol dire la vita
e dove la vita vuol dire eternità

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