giovedì 8 novembre 2007

IL GENIO MATERNO HA LE SUE ECLISSI (Christian Bobin, Francesco e l'infinitamente piccolo)


Nei dodici capitoletti che compongono Francesco e l’infinitamente piccolo, Bobin ripercorre la vita di Francesco d’Assisi, nelle sue diverse stagioni. Non ci presenta però una “vera” biografia, ma una storia qualunque: sin dalla prima pagina, camminiamo insieme a Francesco, viviamo con lui, lo vediamo crescere e ci sembra un bambino come tanti. Non un santino o un’icona, o un simbolo; ma un bimbo in carne ed ossa a cui Bobin vorrebbe restituire l’infanzia, che i suoi stessi biografi gli hanno rubato. Lo fa a modo suo, coinvolgendo il lettore in una meditazione sui tanti temi a lui cari: la vita, la morte, l’infanzia, le donne, le madri, ma non solo.
Nel terzo capitoletto, intitolato Dolcezza del nulla, si sofferma sull’infanzia di Francesco; ne evoca la madre che, con le sue eclissi, sembra chiamare a sé tutte le madri del mondo. Le donne, madri amanti figlie o, più semplicemente, persone, sono una presenza costante – potremmo dire “pura” – nell’opera di Bobin. Le troviamo disseminate in tutti i suoi scritti, e anche nella sua vita: la madre, l’amica Ghislaine con le figlie, semplici amiche, conoscenti oppure solo passanti. Tutte presenze reali e concrete. La sua capacità di osservazione è estrema. L’attenzione che vi pone è la sua forza. Con mano sapiente, egli trasfigura tutte queste donne reali e concrete in vere e proprie icone. Non per celebrarle in modo sterile o astratto, o addirittura critico. Tutt’altro. Lo fa per restituire loro tutta la bellezza del mondo perché il suo scrivere è sempre un atto di amore alla vita. Incontriamo così donne cariche di umanità, e quindi di imperfezione, di fragilità, in una parola: di amore. Vicino alle madri crescono i figli, e Bobin è stato un figlio molto amato. Da lui trabocca un sentimento di gratitudine verso la vita. E soprattutto, verso sua madre. Il pudore nel raccontarsi è estremo e, a mio avviso, egli è straordinario e coinvolgente proprio per questo: per la sua capacità di coniugare, una prosa molto raffinata, con un calore umano e una dolcezza che sanno donare al lettore uno sguardo puro sia nei confronti del mondo che della propria esistenza.
Trascrivo un breve brano tratto da questo capitoletto, dove incontriamo anche Marta e Maria: “le madri – scrive Bobin – sono l’una e l’altra”.
« Bambini del ventesimo secolo, i vostri genitori sono stanchi. Non credono più in niente. Vi domandano di portarli sulle spalle, di dar loro coraggio e forza. Bambini dei tempi moderni, siete dei re in un deserto. Bambini del tredicesimo secolo vi si accorda poco peso. Siete come una torma talora scossa da brividi di febbre, decimata dalle guerre, dalle carestie o dalla peste. Vi si parla molto poco nei primi anni. Vi si guarda appena, con lo sguardo intenerito che si accorda ai cani di fattoria coi quali giocate nella polvere dei cortili. Piccoli selvaggi del tredicesimo secolo, crescete inosservati sotto lo sguardo di tutti, confusi coi servi nelle scuderie e con le galline nella sala grande. Chi ha visto il piccolo Francesco crescere? A parte Dio, nessuno o quasi. Non il padre, troppo occupato dai suoi viaggi, dal suo denaro e dalle sue stoffe. La madre, un poco. Così poco: il genio materno ha le sue eclissi. C’è quella che veglia su colui che ama, senza impedirgli di prendere la sua strada. E c’è quella che si tormenta per colui che ama, e cerca di modificarne il cammino. C’è Marta e c’è Maria, le due sorelle incontrate da Gesù che passava. Marta, preoccupata dell’ordine e del cibo, che si affanna per la cucina, persa fra rumori di piatti e d’acqua che bolle. E Maria, il grembiule buttato sotto una panca, Maria seduta per terra, le gambe ripiegate di sotto come le ali di un uccello che riposa, viso aperto, mani vuote, Maria tutta presa da quest’amore senza il quale ogni ordine è triste, ogni cibo insipido. Marta e Maria. L’una persa in mille cose, l’altra raccolta. L’una infaticabile, l’altra quieta. Le madri sono l’una e l’altra, spesso contemporaneamente. Il pensiero del bambino le acceca e le illumina al tempo stesso. Guardano la carne della propria carne. Vedono il fanciullo vivere, mai crescere. Vedono il fanciullo nell’eternità della sua età, non vedono mai il passaggio da un’età all’altra, da un’eternità alla successiva. Un giorno si voltano indietro, osservano stupite quel baldo giovane che entra in casa, quell’uomo impacciato dalla sua stessa forza, non rendendosi più conto di come tanta forza e tanta goffaggine siano potute venire da loro, non comprendendo più nulla: il loro fanciullo è cresciuto, ma il loro cuore non è invecchiato e arde, come ai primi dolori del parto…
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, pp. 28-29 – Le Très- Bas, Gallimard, 1992, p. 34)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Interesting to know.