venerdì 30 novembre 2007

Christian Bobin, GEAI

















In breve...
Un ragazzo di otto anni, Albain, incontra Geai sotto la superficie ghiacciata del lago Saint-Sixte nell’Isère. A Geai piacciono i bambini. I due cominciano a chiacchierare e a parlarsi. Ma quando torna a casa, Albain si trova in un mondo tutto diverso: i genitori sono in crisi, la mamma è spesso via e il papà sa comunicare solo con gli schiaffi. Difficile parlare con persone così, più facile farlo con le sue due sorelline più piccole: Babille e Cogne. Per fortuna c’è Prune, la sua piccola amica che comincia ad essere un po’ gelosa della misteriosa signora del lago. Così un bel giorno, decide di andare a conoscerla. Si reca insieme ad Albain al lago Saint-Sixte, ma niente da fare, là non c’è nessuno: solo Albain riesce a parlare con la misteriosa signora. Un bel giorno, il giovane protagonista si ritrova in un letto di ospedale. Tre mesi di coma. Un incidente. Forse le sue gite sulla neve: le peripezie sulla slitta. Suo padre è molto preoccupato. Passata la paura, il piccolo torna a casa, riprende la vita di tutti i giorni: i compiti, la scuola. Da quando ha fatto l’incidente, ha forti emicranie: fa fatica a concentrarsi, a studiare, anche se gli piace il suo maestro, un uomo un po’ strano e innamorato. Ha metodi pedagogici insoliti: racconta sempre di una donna che abita nel Nord; dice di esserne molto innamorato, così tutti gli alunni scrivono alla sua innamorata per sapere quando tornerà nell’Isère – Albain ha capito che questa donna non esiste, ma che è un trucco per far scrivere loro lettere che poi il maestro correggerà.
Un pomeriggio, Albain non riesce a concentrarsi per fare il tema. La mamma entra nella stanza e non si accorge che Geai è lì con lui per aiutarlo. Albain può vedere o sentire Geai, nessun altro può farlo, ma quando lei passa, le persone iniziano a sbadigliare...

La narrazione di Bobin continua semplicemente come è iniziata: il ragazzo diventa grande, comincia a lavorare e incontra l’amore. Da quel giorno, Geai scomparirà.
La storia, in sé, è molto semplice e sviluppa in modo narrativo tutti i nuclei del pensiero e della vita di Bobin che, a mio avviso, non possono essere disgiunti. Ma tuttavia, Geai non è un romanzo autobiografico, anche se ha in sé molto che nasce dalla vita del suo autore. Non vorrei sembrare una guardona che cerca la vita dell’autore nelle sue opere, ma essendo rimasta per molto tempo in compagnia di Christian Bobin, mi viene del tutto naturale cercare di conoscerlo, anche “di persona”. I riferimenti che si trovano alla sua vita celata o manifesta, rendono la sua opera ancora più indifesa. Essa si offre al lettore in una nudità disarmante. Non vi è il grande ego che dall’alto detta le sue opinioni, c’è solo un uomo che attende, scrive, vive. Come tutti, come tanti, ma sotto certi aspetti, forse, come pochi.

Il Lago ghiacciato di Saint-Sixte, nell’Isère [1] fa sicuramente parte dei posti da lui conosciuti e amati, molto probabilmente un luogo colmo di memoria. Saint-Ondras[2], la cittadina dove ha abitato l’amica Ghislaine, si trova a mezzora di strada dal lago. Lo stesso Albain, a tratti, ricorda Christian adolescente, così come egli stesso si racconta in Prisonnier au berceau[3] e ne La luce del mondo[4], dove incontriamo Christian giovane, con le sue difficoltà per inserirsi nel mondo del lavoro, dovute per lo più alle dinamiche relazionali che una professione presuppone, (almeno nella maggior parte dei casi). Per entrambi, il primo impatto sarà traumatico: Albain si imbatterà nell’ ”abominevole” venditore di pentole, mentre Christian ricorderà il giorno in cui due agenti di qualche assicurazione, si sono affacciati al portone di casa per iniziarlo al lavoro.
Anche l’incidente sulla slitta e i tre giorni di coma sono probabilmente parte del suo vissuto: otto anni dopo (in Bibliothèque de nuages[5]), Bobin racconterà di aver rischiato di morire a vent’anni (non ci dice come) e di aver avuto suo padre al capezzale del letto, come il giovane Albain.
Ma ciò che conta non è l’elemento autobiografico in sé, bensì la vita che dà ninfa e vigore all’opera. In Bobin non c’è una pagina scritta “più importante della vita”, in lui incontriamo una scrittura che mette in luce e dà respiro alla vita, senza edulcorarla. La scrittura ha aiutato Bobin ad uscire dai suoi momenti bui. E’ un dono e come tale è gioia pura.
Ciò che vivo di chiaro viene continuamente strappato al cupo, ricerco il mio amore sino negli inferi. Vi rendete conto di quanto debbano essere oscuri i contorni di questa luce perché io sia abbagliato dal blu di un’ortensia dalla semplice parola di una madre al figlio?[6]”: è ciò che leggiamo nel libro-intervista di Lydia Dattas[7]

Non solo il lago Saint-Sixte, l’amica Ghislaine – una presenza di luce diffusa - ma anche la più marginale figura del brocanteur (rigattiere) la ritroveremo in Une bibliothèque de nuages[8], otto anni dopo. Gli oggetti abbandonati hanno tutti una storia e il brocanteur è il loro custode. Il custode del tempo - salvatore dall’oblio che tiene in vita gli oggetti, rimettendoli in un ciclo vitale. Il solo giacere in una vetrina, l’essere accarezzati o desiderati da altri occhi, li rende vivi. Bobin, in questo, è maestro: egli non trasfigura un semplice rigattiere facendone una persona quasi irreale, al contrario, gli restituisce l’identità più profonda unita alla nostra attenzione. Invita a una giustizia dello sguardo che ridà luce e vita al mondo.
Dopo una serie di peripezie professionali, il giovane Albain troverà lavoro proprio presso il rigattiere di Besançon, che vive a Dole.

Geai è un libro ricchissimo d’infanzia: Albain è un bimbo che deve diventare grande; come scrive Mario Bertin nella prefazione di Elogio del nulla, “un riferimento costante nell’opera di Bobin son i bambini. Ma non alla maniera inquietante di Michel Tournier. I bambini di Bobin sono, al medesimo tempo, modelli e interlocutori, perché sono capaci di una conoscenza immediata, perché sanno vedere anche quello che l’adulto non è in grado di vedere, quello che alla persona adulta è invisibile.”[9] Un bambino diventa adulto quando è capace di mentire su ciò che è, come tutti gli adulti sanno fare[10], e forse per questo Albain diverrà grande scegliendo proprio di non mentire a se stesso e agli altri, senza diventare per tale ragione, né ingenuo né cinico.
Vi è un momento centrale nel libro in cui Albain sembra far da controcanto o “fare il verso” a Antoine Roquentin, celeberrimo personaggio de La Nausea di Sartre. Una mattina, il giovane Albain anziché uscire per recarsi al lavoro, resta incantato alla vista del marronnier (ippocastano) che scorge davanti a casa. Assorto in alcune meditazioni sull’inferno e il paradiso, resta seduto in contemplazione davanti all’ippocastano. Egli prova una gioia profonda e nessuna nausea.
Albain ha fatto la prima colazione davanti all’albero. La prima colazione è durata una decina di ore. Dio mio, com’è bella questa vita e com’è ben fatta: dentro di noi qualcosa ha fame. Fuori, una quantità infinita di cibo, più del necessario. […] Geai è accanto ad Albain, davanti alla finestra. Il vivo e la morta guardano l’ippocastano. Il sorriso di Geai è diminuito di intensità. E’ meno accentuato del solito. Davanti all’albero, Geai riconosce qualcosa della vita che non possiede più. E riconoscerlo si accompagna a una lieve malinconia.[11]

Geai, come La folle allure[12], è dunque un romanzo di iniziazione, di una crescita interiore. I protagonisti vivono profondi mutamenti e in questo continuo movimento, Albain incontra Rosamonde. Un nome che fa esistere due persone: la madre e la figlia. “Rosamonde è il nome del legame fra quella madre e quella figlia[13]”. Albain si innamora di entrambe o meglio “non si è innamorato di una persona sola, ma dell’unione fra questa persona e un’altra, dell’universo che vibra all’interno di questa unione. Si crede di amare degli individui. In realtà, si amano dei mondi[14]”.
Albain decide di restare con loro. Geai, a questo punto, non ha più ragione di rimanergli accanto.

Rosemonde è due
Rosamonde è due. Sì, lo so che questa frase non suona bene. Ma è impossibile scriverla diversamente. Rosamonde è due. Rosamonde è il nome dato da Albain a una visione che lo ha incantato. Visione che è apparsa sulla soglia del suo negozio. Una madre e sua figlia. Rosamonde è il nome del legame fra quella madre e quella figlia. E’ questo legame che ha incantato Albain. Rosamonde è il nome di questo incanto. Si può scriverlo così: Albain si è innamorato, a condizione di precisare che non si è innamorato di una persona sola, ma dell’unione fra questa persona e un’altra, dell’universo che vibra all’interno di quest’unione. Si crede di amare degli individui. In realtà si amano dei mondi.[15]

Se Rosemonde è "il nome di questo incanto", quale mondo evoca il nome Geai? Geai è il nome di un piccolo uccello dalle piume screziate di blu e marrone: la ghiandaia; lo ritroviamo spesso nei libri di Bobin in compagnia dei passeri, delle tortore e dei pettirossi: portatori di gioia insieme al tiglio e alla betulla cha abitano dinnanzi alla casa del nostro autore che come Emily Dickinson, fa esperienza della natura[16]
In un brano di Prisonnier au berceau [17], Bobin ci parla di questo piccolo essere che porta in sé la durezza delle battaglie e la grazia dell’universo:

La ghiandaia è un uccello pesante, di buon grado battagliero. Nelle foreste, a volte, si scoprono le vestigia delle sue guerre: lunghe piume marroni strappate a ciuffi e, quasi invisibili, minuscole piume striate di blu: bagliori di vetro del paradiso, come se qualcuno avesse lanciato una pietra contro un vetro nelle profondità dei cieli. Non capisco come tanta grazia possa venir fuori da così aspre battaglie. La durezza di questo blu mi acceca come una verità eterna.[18]
Vi invito a leggere Geai per scoprire gli altri mondi che evoca il suo nome.
Il libro è stato pubblicato in Italia dalla San Paolo nel 2000 e, a mio parere (la San Paolo non me ne voglia!), la scelta della copertina non rende giustizia al contenuto di quest’opera.
Le foto mostrano il Lago di Saint-Sixte.
Note
[1] Isère: dipartimento della regione Rhône Alpes, regione del sud-est della Francia, al confine con l’Italia.
[2] Una cittadina a tre ore da Torino! Così registra il motore di ricerca Google map!!
[3] Prisonnier au berceau, Mercure de France, 2005. (Prigioniero nel Paese dell’infanzia – così tradurrei il titolo del libro non ancora uscito in Italia).
[4] La luce del mondo, Gribaudi 2001.
[5] Une bibliothèque de nuages, Lettres vives, 2006, p. 30.
[6] La luce del mondo, Gribaudi 2001, p. 20.
[7] La luce del mondo, Gribaudi, 2001.
[8] Geai, San Paolo, 2000 pp. 94-95; Une bibliothèque de nuages, Letres vives, 2006, p. 41.
[9] Elogio del nulla, Servitium, 2005, p. 8.
[10] Elogio del nulla, Servitium, 2005, p. 25.
[11] Geai, San Paolo, 2000 pp. 64-65.
[12] La Folle allure, Gallimard, 1995 (non ancora pubblicato in Italia).
[13] Geai, San Paolo, 2000, p. 85.
[14] Geai, San Paolo, 2000, p. 85.
[15] Geai, San Paolo, p. 85.
[16] La luce del mondo, p. 27.
[17] Prisonnier au berceau, Mercure de France 2005 (Prigioniero nel Paese dell’infanzia – così tradurrei il titolo del libro non ancora pubblicato in Italia).
[18] Prisonnier au berceau, Mercure de France 2005, p. 71.


















lunedì 26 novembre 2007

LUCI ACCESE di Bella Chagall: cap. II - LA CORTE




A Saint-Dié-sur Loire, Bella e Marc Chagall si rifugiano per sottrarsi alle persecuzioni naziste. Nel 39, a più di cinquant’anni, Bella inizia a scrivere la sua infanzia: racconta con gli occhi della bambina di nove anni, tutta immersa nel mondo di Vitebsk: la famiglia, i giochi con i fratelli, le persone, gli animali della corte, le voci del quartiere, i negozi, il tempo e le stagioni scanditi dalle feste.
Volti e voci che si sono rincorsi fino a giungere nella mia casa. E nella mia vita.
Leggo in una lingua “balbettante” – è la stessa Bella a definirla così. Tra le tre lingue che conosce (russo, francese, yiddish), scrive in yiddish. Forse perché è la lingua nella quale sente risuonare, con più nitidezza, tutto il suo mondo. Sarà poi la figlia Ida a tradurre la versione in francese per l’edizione svizzera del 1948 (la prima edizione fu infatti quella in yiddish del 45).
Chagall riuscì a pubblicare le memorie di Bella subito dopo la guerra, fu la casa editrice Svizzera Trois collines che diede vita, nel 48, alla prima edizione in lingua francese di Lumières allumées.
Bella, molto probabilmente, non vide mai il suo libro pubblicato: morì nel 41 negli Stati Uniti, qualche anno prima della fine della guerra.

Ricordo ancora quando ricevetti il plico di Lumières allumées che avevo ordinato su internet presso le librerie di libri ormai introvabili e di un certo pregio. Nessuno lo aveva ancora sfogliato, ero la prima! Le pagine ben chiuse tra loro, dovetti usare un tagliacarte per aprirle. Poi decisi di farmi arrivare anche l’edizione di Gallimard del 73: si tratta di un’edizione riveduta e corretta per gli errori e le imprecisioni dovuti probabilmente alla “fretta” di pubblicazione. Ma quando decisi di iniziare a tradurre il libro di Bella, scegliemmo l’edizione del 48(non posso non consultarmi con Lorenzo per queste cose!). Ci sembrava più incontaminata, più autentica; come se nell’edizione del 48 ci fosse ancora quel timbro imperfetto, balbettante della bimba di nove anni che ha tentato a raccontare un mondo, nella lingua che ha conosciuto, probabilmente, solo l’infanzia.
Il francese che ne risulta è semplice. Le immagini sono serene. Il timbro della voce nitido.
Ho cercato di riprodurne il balbettio.
Non so se ci sono riuscita.

Ho già inserito nella mia bibliothèque de nuages, il capitoletto Eredità che introduce Luci accese e un’introduzione su Bella Chagall e il suo mondo, scritta da Lorenzo.

Luci accese è composto dai seguenti capitoli (quelli in grassetto li ho già tutti tradotti!):
I. EREDITA’
II. LA CORTE
III. AI BAGNI
IV. LO SHABBAT
V. IL PRECETTORE
VI. L’ANNO NUOVO
VII. IL GRANDE PERDONO
VIII. LA FESTA DEI TABERNACOLI
IX. LA FESTA DELLA TORAH
X. LA PRIMA NEVE
XI. LA LAMPADA DI HANNUKKAH
XII. LA QUINTA CANDELA
XIII. I REGALI DI HANNUKKAH

XIV. IL NEGOZIO
XV. I REGALI DI PURIM
XVI. IL LIBRO DI ESTHER
XVII. I COMMEDIANTI DI PURIM
XVIII. L’ORA DEL PRANZO
XIX. LA CACCIA AL LIEVITO
XX. LA VIGILIA DI PASQUA
XXI. IL BANCHETTO DI PASQUA
XXII. IL PROFETA ELIA
XXIII. L’AFFIKOIMEN
XXIV. TISHAH B’AV
XXV. UN MATRIMONIO

Questa sera riporto il secondo capitolo intitolato:
2. LA CORTE
Durante il giorno, dopo mangiato, la casa resta sola. Tutti se ne vanno.
E’ grande, e non c’è nessuno. Si potrebbero addirittura lasciar entrare la capra dalla corte o le galline dal pollaio.
Dalla cucina soltanto, si sente il rumore del lavare dei piatti.
“Hai spazzato la sala da pranzo?”
La voce, con una lunga scopa in mano, fa volare Sacha fuori dalla cucina.
Un “Cosa fai qui?” mi piomba addosso.
“Nulla!” rispondo sempre.
“Esci! Devo spazzare!”
“Chi te lo impedisce? Spazza!”
Lei spazza il pavimento e, con la polvere, si porta via le ultime voci che sono risuonate nella stanza. La sala da pranzo si fa fredda.
I muri, di colpo, diventano vecchi. Puntano dritto agli occhi con la loro carta sbiadita. Sembra che anch’io sia di troppo.
Dove mettermi?
Vago per la casa. Entro nella camera da letto. I letti piccoli di papà e mamma intimoriscono con il loro metallo scintillante. I pomelli massicci di nickel e le sbarre della testata del letto li custodiscono davanti e dietro, come soldati di guardia. Ti avvicini e il nickel ti mitraglia con la sua luce metallica. Lancio loro uno sguardo: faccio una smorfia e storco il naso. Fuggo e vado a sbattere contro una porta chiusa.
Avevo completamente dimenticato che c’è una sala.
La porta è sempre chiusa.
Ho persino paura di questa stanza.
Dal tempo del matrimonio di mio fratello – a causa della famiglia della sposa, avevamo sostituito le vecchie sedie viennesi con nuove morbide seggiole – la sala è divenuta estranea, come esclusa dal resto della casa.
E’ scuro nella sala.
Sul divano è distesa – come fitto muschio – una grande stoffa verde. Appena ci si posa sopra – fosse anche solo il gatto – le molle, come se fossero sempre sofferenti, gemono: non possono sopportare che qualcuno le prema.
Il tappeto è verde, come se crescesse l’erba.
E i pochi fiori rosa ricamati al centro sembrano allontanarvi, simili all’ombra (parvenza) di un piede che non lasci passare nessuno. (p. 16)
Persino lo specchio stretto e alto è divenuto verde. I mobili verdi, giorno e notte, vi si riflettono.
In piedi, solitaria, vicino alla finestra, una vecchia palma s’inaridisce in una verde oscurità.
La finestra, sovraccarica di tende, è sempre chiusa e la palma non vede mai il sole.
A mo’ di sole, luccicano due candelabri di bronzo che si ergono in un angolo su alti treppiedi. Dai bracci spuntano corte candele bianche mai accese.
Dal soffitto scende un lampadario, ugualmente di bronzo, che solamente piccoli, vibranti cristalli bianchi rendono vivo.
Di notte, la palma pensa che qualcosa brilli per lei nel cielo-soffitto e che alcune stelle filtrino dai piccoli cristalli tremolanti.
Deve essere più forte del bronzo, questa palma, per resistere giorno dopo giorno, mesi, anni…
Nessuno si attarda nella sala. Ciascuno, molto velocemente, la attraversa come una passerella, da una stanza all’altra.
Se papà al mattino ci va a pregare con lo scialle di preghiera e i filatteri, pensa di essere uscito a pregare all’aperto, magari in un campo verde.
Quando, durante la giornata, torna per cercare un libro, non si guarda nemmeno intorno.
L’armadio dei libri è l’unica vestigia dei mobili che erano nella sala. E’ rimasto là, dove è sempre stato: in una sala, vicino alla porta. Zeppo di volumi, non ha potuto probabilmente essere spostato. Silenzioso, assorto nei suoi libri, l’armadio s’innalza come se non avesse legami con la vita della casa.
Mi avvicino come farei con un vecchio familiare. Lo tocco, i suoi piedi cominciano a cigolare. E’ duro per loro sostenere l’intero armadio. Do un’occhiata attraverso le ante a vetri: mensola su mensola, una sull’altra, ciascuna sembra una cappella.
Su di una poggiano, di schiena, in rilegature nere ben chiuse, alte, eleganti Ghemoràh, come vecchi ebrei schierati davanti a un muro per le Diciotto Benedizioni.
Su un’altra, sono in bella mostra grandi bibbie, Machzòr, Siddùr e salteri. Sugli ultimi ripiani stanno impilati tanti libri di preghiera da donne: sembra che ne esca un bisbiglio. Tutti paiono turbarsi per il fatto che li guardo.
Fuggo via: mi gridano dietro come il mio vecchio bisnonno gridava contro mia madre: perché mi insegnavano il russo? Perché non prendevano piuttosto un buon precettore per insegnarmi lo yiddish?
Oh! E’ vero, mi ricordo – il mio piccolo rabbino con il quale mi addormento sull’alfabeto, deve venire subito! Bisogna che fugga.
“Bachka.” Sacha mi ferma. “Dove corri come una matta?”
Le rispondo: “E’ affar tuo? Da nessuna parte!”
Mi precipito nella corte.
Il passaggio, benché di ferro, si piega sotto i piedi. Le lame sottili sono molto distanziate; i talloni si incastrano negli interstizi.
La facciata è alta. Da cima a fondo le scale salgono, scendono, si srotolano una sopra l’altra: le ringhiere, come con delle catene, le tengono ferme.
Le scale di sopra portano alla soffitta a vetri dove vive un fotografo.
Le scale di sotto scivolano verso il basso, si fermano quasi in mezzo alla corte.
Sotto l’ultimissimo gradino, sono a casa.
E’ qui che gioco, qui è il mio negozio, qui stanno ad asciugare i miei patè di sabbia bagnata. Qui sono schierate vecchie scatole di sardine che adesso sono piene di farina, d’avena e di ogni sorta di pietruzze, di cocci di vasi rotti, di vetri colorati. Tutto quello che trovo nella corte, tutto quello che metto al riparo da un piede straniero.
La corte, piccola, quadrata, è come incastrata entro alte mura. Là vive un mondo. Il sole non vi arriva. In alto, una macchia di cielo risplende. Dai muri cadono dei brandelli di ombra.
Tutto intorno stanno le finestre, le porte del grand hotel Brozi. Da ogni finestra spunta una testa, e ogni giorno è un’altra testa. Non appena arriva un nuovo ospite, si apre la tenda della finestra.
“Vedi piccola signorina? Sono arrivati dei nuovi clienti.”
Il panettiere, che è venuto a rinfrescarsi nella corte, mi indica la finestra con le tende abbassate.
“Probabilmente, sono appena scesi dal treno e si riposano.
- Non farai rumore nella corte, vero, bambina?” mi dice; si porta via una boccata d’aria fresca e rientra svelto in cucina.
Io, rumorosa?
Non avevo tempo per fargli domande: mi avrebbe detto almeno perché sono stanchi tutti questi che arrivano. E’ il treno che corre, non loro!
Il vecchio panettiere sa che ho paura di lui, paura del suo viso infarinato, del suo alto berretto bianco e del suo grande grembiule bianco.
Io, rumorosa?
Non sono seduta sugli ultimi gradini, zitta e buona? C’è n’è già abbastanza di rumore nella corte, anche senza di me. I domestici dell’hotel zampettano qua e là, vanno e vengono: uno esce, l’altro entra. Trascinano, riempiono, svuotano qualcosa. Alcune vecchie donne della via vengono a vendere uova, galline, panna. Ne nasce una vera baraonda.
Le galline chiocciano, il gatto passa tra le gambe; cerca qualcosa da lappare. Il cane arriva come un bolide, la lingua fuori, la coda in aria; spaventa il gallo che cerca di liberarsi dalle mani che lo tengono. Il gatto si nasconde in un angolo.
Per tutta la corte il cane saltella, fiuta come se fosse l’amministratore che deve render conto al proprietario. I domestici si spingono, si insultano.
“Comprate il gallo!” Supplica la venditrice ambulante.
“Ma vattene al diavolo te e il tuo gallo! E’ più vecchio del padre di Abramo!”
“Mio Dio, cosa dici? Che i miei piedi e le mie mani si secchino (inaridiscano) se mento!”
“Esci di qui, vecchia strega! Capisci quel che ti si dice? Lo capisci?...”
La vecchietta e il gallo tra le sue braccia diventano silenziosi. Se ne sta in piedi, aspetta; forse tra poco la collera dell’uomo si smorza? Adesso attacca con qualcun altro.
“Dove ti sei cacciato, diavolo che non sei altro? Hai spinto la botte in pieno fango! Dove? Cosa? Allora hai bevuto, faccia di cane! Ce l’hai col mondo, tu! Aspetta, adesso ti…”
“Hé! Piotr! Stefano!” gridano dalla cucina. “Possiate arrostire tutti e due! Avete pelato le patate? La cuoca aspetta…”
I due ragazzi rientrano correndo.
“Piotr, prendi i gallo con te!” la venditrice ambulante gli corre dietro. “Mostralo in cucina. Fatelo solo arrostire – c’è da leccarsi le dita, vedrete!”
Nessuno l’ascolta. A gridare, le si svuota il cuore. A capo chino, rimette il gallo nel cesto.
“Gla-a-a-ch-a-a! Vieni qui! Dove se-i-i-i? “
Tutto a un tratto, dalla finestra, spunta fuori una voce lunga come un fischio.
“Gla-a-a-ch-a-a! Vieni qui! Dove ti sei persa? La signora del due ti chiama!”
Solo le lavandaie dell’hotel, che stirano la biancheria vicino alle finestre aperte, non s’insultano. Cantano, come se il calore del ferro riscaldasse loro il cuore. A volte, si direbbe che singhiozzino.
La triste melodia si trascina, si protrae senza fine come la pila della biancheria che si ammassa davanti a loro. Tutt’a un tratto, irrompono nella corte le due figlie del proprietario. Ridono con voce stridula. Mi precipito verso di loro.
Dalla loro bocca sembra schizzar fuori del sangue… gamberi appena cotti crocchiano sotto i loro denti.
“Fi! Che fate? “ Sembra che inghiottano topi sanguinolenti.
“Ivan!” gridano tutte e due verso la stalla aperta. “Porta fuori i cavalli, partiamo tra poco!”
Nella scuderia due cavalli nitriscono come per risposta a un richiamo.
Nere, grasse, le groppe risplendono, lucidate. Piccole gocce di sudore scorrono lungo il pelo. Furiosi, scalciano, agitano le criniere; come ciechi, cercano la sacca di avena che il cocchiere ha appeso al muro.
Si sporgono, sprofondano il muso nella sacca di biada, e ci si addormentano. Solo i loro colli lunghi respirano come una proboscide allungata.
Anche i cavalli e gli stivali del cocchiere risplendono di grasso.
Sta in piedi vicino ai suoi animali e li accarezza.
“Ivan!” Mi rivolgo al cocchiere. “Sei appena tornato dalla città?”
“Il piacere è una cosa, il lavoro è un’altra cosa”, dice Ivan. “Non è vero, cavallo mio?” Ivan da all’animale una vigorosa pacca sul fianco.
I due cavalli fanno uscire un occhio dalla sacca, lanciano uno sguardo al cocchiere.
Perché non li lasciano mangiare?
Sventolano la loro furia sulle mosche che sferzano con la coda.
Le zampe sovraeccitate non stanno mai ferme. Le ginocchia si flettono, poi si distendono. Gli zoccoli raschiano il suolo, vogliono esplorare cosa c’è sotto le zampe. Poco fa , galoppavano per la città. In un batter d’occhio, volavano da una via all’altra. E qui, nella scuderia, al minimo movimento, pesanti catene di ferro serpeggiano dietro di loro, quelle stesse pesanti catene che li legano alla trave.
“H-r-r-r.” Nitriscono mangiando.
“Muu-muu-muu.” Dalla stalla, la mucca sente e muggisce.
Non posso trattenermi. Corro da lei. La scuderia, almeno, è aperta: i cavalli hanno sempre l’ aria fresca. La mucca, invece, è rinchiusa come una ladra in una prigione.
Una bella mucca rossa, e ci si vergogna di lei. La stalla scura, sporca, è in fondo alla corte, vicino alle immondizie. I muri sono sottili. Il minimo soffio di vento li attraversa. La pioggia vi gocciola dentro attraverso piccole fessure. Un grande foro nella porta fa da finestra. Di lì, osservo la mucca. E’ distesa, senza forze, il ventre, le membra sprofondano nella lettiera sporca. Un nugolo di mosche la divora. Non si muove, come se fosse un cumulo di immondizie.
E’ davvero così pigra?
In realtà, sente il ronzio delle mosche; di rado, svogliatamente, alza la lunga coda sottile , tutta indurita dal fango e sferza le mosche.
Di tutto il corpo, solo la testa dà segni di vita. A tratti, un orecchio si drizza o l’altro si piega. Coglie ogni rumore che si sente nella corte. Nella sua calma triste, durante tutto il giorno, rumina lentamente un rumore alla volta.
Il muso è umido: piange, gli occhi colmi di lacrime che rimangono nelle palpebre. A volte, qualcuna scivola lungo le narici.
Non posso sopportare il suo sguardo: come una pietra pesante, pesa sul mio cuore, quasi fossi colpevole della sua prigionia.
Dal foro buio, le sussurro: “Muu-muu…”
“Muu-muu.” Mi risponde in modo greve e mi fissa con gioia serena – qualcuno si ricorda di lei.
Ma sa che non potrei mai liberarla, che non potrei aprirle la porta della stalla.
Di nuovo, china tristemente la testa. Se ne sta distesa fino all’ora della mungitura. Non appena fiuta l’odore della crusca che viene innaffiata per lei con acqua bollente, tira su il ventre gonfio, le gambe, le mammelle e si piazza sulla porta.
Se ne sta lì soffiando col naso, aspetta. Ascolta ogni passo. Sente come Sacha taglia e getta nei mastelli grandi pezzi di barbabietole dalle lunghe foglie, di patate, di carote cotte. Sente come la domestica versa l’acqua bollente e rimesta il mangiare perché la mucca non si scotti.
La lingua a penzoloni. Con i corni, sbatte contro la porta. Appena Sacha apre la stalla, la mucca scappa fuori, viva, agile, battendo le zampe, ciondolando le costole. Pezzi di fango secco le cadono giù. Non guarda nessuno. Con il capo chino, attraversa la corte, come se ce l’avesse con tutti. Ma giunta dove si legano i cavalli in mezzo alla corte, mentre passa, da uno spintone. Forse li vuole punzecchiare perché sono più coccolati di lei.
Sprofonda nel mangime fino al collo, lappa l’acqua, mastica il verde. Dalla bocca, cola e scorre fuori tutto. Le guance ciondolanti salgono e scendono. Il ventre si gonfia come un soffietto.
Alla fine, ancora affamata, lecca la tinozza vuota, con la sua lingua formidabile. E la domestica le si avvicina, le da una pacca sul ventre. La mucca si rianima al tocco della mano calda di Sacha, e si lascia mungere.
“Aspetta, Batchutka, non andartene!” - mi dice Sacha - Berrai presto un bicchiere di latte.”
Sacha sa che non posso sentire quando tira le mammelle della mucca e il latte sprizza e cade giù nel secchio, schiumoso, ribollente.
Mi sembra che il latte sappia di sudore.
“No, Sacha. Non ho tempo. Ecco, viene il maestro. Devo andare a lezione”.
Prendine almeno un goccio.
“Ne prenderò domani…”
E ridendo, fuggo via.
Traduzione di Maddalena Cavalleri Gobbi



mercoledì 21 novembre 2007

Christian Bobin: SOUVERAINETE DU VIDE


Bobin pubblicava Souveraineté du vide, nel lontano 1985 (Fata Morgana), due anni più tardi nel 1987, usciva sempre con la stessa casa editrice, Lettres d’or (entrambi mai pubblicati in Italia).
Oggi, sul mercato francofono, ritroviamo Souveraineté du vide (è un libro sottile di un centinaio di pagine) nell’edizione Gallimard, uscita nel 1995, che ripropone le due opere insieme.
Lo stesso titolo ci introduce nel mondo di Bobin. La trama, se di trama si può parlare, potrebbe essere resa dalle parole che continuamente ritornano: leggere, amare, scrivere, la pagina bianca, inchiostro, luce, infanzia, solitudine, mancanza, attesa. Parole che non solo si irradiano nella sovranità del vuoto, ma che scintillano in tutta l’opera di Bobin. Scrivere, dono, gratuità sono i sudditi di questo vuoto – sovrano della scrittura.
Ma di quale vuoto si tratta? Non è il vuoto dato dall'assenza e dalla perdita di una persona amata. Bobin, mentre scrive queste pagine (siamo negli anni 80), non ha ancora conosciuto il vuoto causato dalla morte. Qui, ci parla di quel vuoto necessario, che ognuno deve fare, per entrare nella propria vita e per poter accostarsi all’altro senza invaderlo con qualcosa che non gli appartiene; quel "qualcosa" che è spesso dentro di noi e che ci impedisce di accogliere la nostra vera vita. Lo scrittore, per primo, deve conoscere questo vuoto, attarversarlo nel silenzio. Tacere prima di.

Se taire: l’avancée en solitude, loin de dessiner une clôture, ouvre la seule et durable et réelle voie d’accès aux autres, à cette altérité qui est en nous et qui est dans les autres comme l’ombre portée d’un astre, solaire, bienveillant.
Tacere: progredire in solitudine, lontano dal disegnare una chiusura, apre la sola e durevole e reale via d’accesso agli altri, a questa alterità che è in noi e che è negli altri come l’ombra portata da un astro, solare, ben disposto.
(Souveraineté du vide, Fata Morgana 1985-Gallimard 1995, pag. 53)

Un tacere che è necessario allo scrivere, perché ne è fondamento. Un esercizio di attenzione e di ascolto profondo. Una mistica del libro. Non la mistica di un libro religioso, ma di un libro pienamente laico. Una voce che sa donare. Sì, perché di dono si tratta. Un dono che avvolge l’ esistenza. Una bontà dello sguardo che non vuole edulcorare la realtà, ma che vuole, come un guardiano, continuare a svelarne la luce, assorbita dal buio della sofferenza e del male. Né morale né insegnamento ma dono. Puro dono.
Souveraineté du vide inizia con un corsivo rivolto a un “vous” che anticipa le tre lettere (i tre capitoletti) che compongono questo librino. L’ “altro”, dunque, per Bobin è fondamentale.
È tutto.
La prima lettera (o il primo capitoletto) inizia così:

Les livres. Ils sont sur ma table Je les ai ouverts, au hasard. Je les ai feuilletés. Un apaisement est venu, dont je ne savais pas avoir besoin. Un bonheur de lire, antérieur à l’acte même de lire. Une lumière dérobée par ce premier regard, distrait, rapide. Une lumière anticipant la lumière enclose dans ces pages. Puis j’ai refermé les livres. Plus tard . La lecture viendrait plus tard, bien plus tard. La nuit convenait mieux, pour lire, la nuit convient mieux, cette égalité enfin établie entre l’obscurité du dedans et l’obscurité du dehors. Je suis parti. Je suis allé me promener, j’ai vu des gens. L’idée m’est venue de vous écrire une lettre, cette lettre, l’idée d’une lettre infinie, sans suite. Interrompue, souvent, comme est interrompue la lecture, comme est révoqué l’état de lecteur, l’état d’absence, par le bruit d’une porte qui se ferme, par l’avancée soudaine de l’aube, par le désastre du sommeil.(Souveraineté du vide, Fata Morgana 1985-Gallimard 1995, pag. 15 Incipit del libro)

I libri. Sono sul mio tavolo. Li ho aperti, a caso. Li ho sfogliati. E’ giunta una quiete: non sapevo di averne bisogno. Una felicità di leggere, anteriore all’atto stesso di leggere. Una luce carpita da questo primo sguardo, distratto, rapido. Una luce che anticipa la luce racchiusa in queste pagine. Poi ho richiuso i libri. Più tardi. La lettura sarebbe giunta più tardi, molto più tardi. La notte era più adatta per leggere, la notte è più adatta, quest’uguaglianza finalmente stabilita tra l’oscurità dentro e l’oscurità fuori. Sono uscito. Sono andato a passeggiare, ho visto della gente. Mi è venuta l’idea di scrivervi una lettera, questa lettera, l’idea di una lettera infinita, senza nesso. Interrotta, spesso, come è interrotta la lettura: come viene revocato lo stato del lettore, lo stato di assenza, dal rumore di una porta che si chiude, dall’irrompere improvviso dell’alba, dal disastro del sonno.
(Traduzione di Maddalena Cavalleri con il sostegno psicologico, affettivo e letterario di Lorenzo Gobbi)


Poche righe più in là, leggiamo…..

L’enfant, le lecteur, pris dans l’apprentissage insomniaque de la vie en société , tenu dans cette bêtise générale par l’obligation faite de parler, toujours, de répondre présent, toujours, car il y a des questions, car il y a des appels, toujours, qui ne s’arrêtent pas de meurtrir le silence qui dort au fond de lui, le beau silence, le silence somnambule. La joie que c’est pour lui, de s’abstraire, d’ouvrir un livre, d’en finir avec toutes sollicitations, avec toutes compagnies, avec tous liens approximatifs. Purification. Entrée en lecture. Entrée en rêverie. Purification.

Lisant, non pas pour savoir, non pas pour apprendre, pour accumuler, pour entasser, pour acquérir. Non, rien de tout cela. Lisant bien plutôt pour oublier, pour se déprendre, pour perdre, pour se perdre. Redevenant seul, infiniment seul.

Assez seul pour ne pas l’être jamais

Les livres établissent les coordonnées, tracent les cartes d’une contrée déserte, vouée à l’amour et aux herbes folles, traversée par des bêtes sauvages et douces, en quête de point d’eau, en quête du point d’eau du sommeil.

Ce toucher des mots, cette irradiation de la voix qui dans l’âme engourdie du lecteur détectent des nappes d’eau vive, des sources de feu: les vrais écrivains sont des sourciers. Des guérisseurs. La main magnétique de celui qui écrit se pose sur le cœur à nu du lecteur, résorbe la fièvre, change le sang en eau.
(Souveraineté du vide, Fata Morgana 1985-Gallimard 1995, pp. 16-17)

Il bambino, il lettore, preso nell’apprendistato insonne della vita in società, tenuto in questa stupidità generale dall’obbligo di parlare, sempre, di rispondere presente, sempre, perché ci sono domande, perché ci sono richiami, sempre, che non smettono di ferire il silenzio che dorme dentro di lui, il bel silenzio, il silenzio sonnambulo. Che gioia per lui distrarsi, aprire un libro, lasciare andare le sollecitazioni, le compagnie, i legami approssimativi. Purificarsi. Entrare nella lettura. Vagare nel sogno. Purificarsi.

Leggere, non per sapere, non per imparare, non per accumulare, per ammassare, per acquisire. No, nulla di tutto ciò. Leggere piuttosto per dimenticare, per liberarsi, per perdere, per perdersi. Tornare solo, infinitamente solo.

Abbastanza solo per non esserlo mai.

I libri stabiliscono le coordinate, disegnano le mappe di una contrada deserta, votata all’amore e alle erbe folli, attraversata da animali selvaggi e dolci , in cerca di un punto d’acqua, in cerca del punto d’acqua del sonno.

Questo tocco delle parole, questa irradiazione della voce che nell’anima intorpidita del lettore rivela falde d’acqua viva, fonti di fuoco: i veri scrittori sono dei rabdomanti. Dei guaritori. La mano magnetica di colui che scrive si posa sul cuore nudo del lettore, riassorbe la febbre, tramuta il sangue in acqua.
(Traduzione di Maddalena Cavalleri con il sostegno psicologico, affettivo e letterario di Lorenzo Gobbi)


Gli spazi vuoti, che caratterizzano la maggior parte dei libri meditativi di Bobin, sono l’espressione concreta di questo vuoto. Una pausa necessaria. Un ritirarsi della parola. Uno spazio bianco, incontaminato.

martedì 20 novembre 2007

LUCI ACCESE di BELLA CHAGALL: cap. XXI. IL BANCHETTO DI PASQUA cap. XXI




Desidero ringraziare Lorenzo, mio marito, perché mi ha sopportato per anni (e continua a farlo ogni giorno!), cercando di aiutarmi a vincere tutte le mie paure e insicurezze riguardo allo scrivere e al tradurre. Con pazienza, mi ha dato coraggio e per tutta una serie di combinazioni, Christian Bobin e Bella Chagall sono stati e, non hanno mai smesso di essere, la mia palestra: un territorio di scuola, allenamento e ascolto. Tanto ascolto. E pazienza di Lorenzo.
Ora è tempo di iniziare a mettere qualcosa di Bella Chagall anche nella Bibliothèque de nuages.


Il banchetto di Pasqua nella memoria di Bella Chagall (testo introduttivo di Lorenzo Gobbi)

A Vitebsk, in Bielorussia, una ragazza di nome Bella Rosenfeld incontra in casa dell’amica Thea un giovane pittore, ebreo come lei, anch’egli originario di Vitebsk; è il 1909. Il giovane è appena tornato da Pietroburgo e sta per recarsi a Parigi, dove resterà per quattro anni; si chiama Moyshe Segal, ma a Parigi sarà presto noto con il nome di Marc Chagall, e diverrà uno dei più noti e importanti pittori del XX secolo, raggiungendo una fama mondiale[1].
Tra Bella e Marc l’amore è immediato e tenace: Bella lo aspetterà per quattro anni, nonostante lo scontento della famiglia, che sperava per Bella un avvenire più sicuro; e lo sposerà nel 1914, seguendolo a Mosca, a Parigi e infine negli Stati Uniti, dove morirà nel 1944 dopo una breve malattia. Dopo la morte di Bella e la fine della guerra, Chagall tornerà a vivere in Francia. Nel 1973, il ministro della cultura André Malraux inaugura a Nizza il Museo del Messaggio Biblico dedicato all’opera di Marc Chagall.
La figura di Bella è familiare a coloro che amano l’opera di Chagall: è lei la donna che volteggia intorno al pittore nella celeberrima Promenade, e sono suoi il corpo e il volto femminili che popolano i più belli tra i quadri di Chagall. In questo libro è raccolta la sua voce: per il marito Marc e per la loro figlia Ida, Bella narra della propria infanzia a Vitebsk, del piccolo mondo ebraico dell’Est – lo stesso che sarà presto spazzato via dalla Shoàh, ma che già la Rivoluzione d’Ottobre ha posto in una grave situazione di crisi. Come il marito, ancora giovanissima Bella è pervasa da un’intensa poesia della memoria: ecco il negozio dei genitori, la corte, il rabbino, i bagni rituali, la sinagoga, le feste, il banchetto di Pasqua, i canti e le candele, i dolci e i piatti tradizionali, lo Shabbàt, le voci e le figure di un mondo lontano, che già la figlia Ida conosceva soltanto attraverso il racconto.
Lo stile di Bella è piano e chiaro, il ricordo è vivissimo: ambienti e persone sono colti con lo sguardo della bambina che vi crebbe, con la sua semplicità esigente e con la sua attenzione carica di attese.
Il racconto Luci accese si articola in 25 capitoli, dedicati ognuno a un aspetto della vita ebraica di Vitebsk. Il volume fu pubblicato a Parigi-Ginevra nel 1948 in 2500 copie, a cura di Ida Chagall, che lo tradusse dall’yiddish in francese (così come La mia vita di Marc Chagall, uscì per volontà dell’autore tradotta dall’yiddish in francese). Il libro può essere letto come documento della vita quotidiana degli ebrei dell’Europa dell’Est alla fine del XIX secolo; effettivamente, ne documenta bene le usanze e i tratti caratteristici, prestandosi a una lettura sociologica che non lo esaurisce, però, minimamente. Bella scrive per desiderio di Marc, raccontandogli la sua vita di bambina, prima dell’incontro con lui. Bella scrive prima e durante la Shoàh: sa che quel mondo è in buona parte scomparso, ha notizia di quanto sia perseguitato, ma non ha ancora conosciuto del tutto l’orrore di saperlo annientato definitivamente. Proprio per questa ragione, ci è parso adatto a portare in tavola la memoria: è la memoria di Bella Chagall a tavola, durante il banchetto di Pasqua.
Di seguito riportiamo due brani: il primo è tratto dall’introduzione al libro scritta per mano di Bella e si intitola Eredità; il secondo, invece, dal capitolo Il banchetto di Pasqua.

Eredità
La mia vecchia casa non esiste più. Tutto se ne è andato, morto. Mio padre – possa egli sostenerci – è morto. La mamma vive – Dio sa se vive ancora – in una città profana che le è del tutto estranea.
I figli sono dispersi in questo e nell’altro mondo, alcuni qui, altri là. Ma ciascuno, al posto dell’eredità scomparsa, ha portato via con sé come un lembo del sudario del padre: il soffio della casa materna. Distendo il mio lembo di eredità e subito salgono verso di me gli odori della mia vecchia casa. Cominciano allora a risuonarmi nelle orecchie le voci del negozio, le melodie cantilenanti del rabbino nei giorni di festa. Da ogni pertugio esce un’ombra; appena la tocco, lei mi trascina in una danza con altre ombre. Si spingono, mi urtano la schiena, le spalle, mi afferrano le mani, i piedi, fino a che mi piombano addosso, come uno sciame di mosche ronzanti in una giornata calda. Non so dove nascondermi. E così, all’improvviso, ho voluto strappare dalle tenebre un giorno, un’ora, un istante della casa svanita. Ma come riportare in vita certi momenti? Mio Dio, è così difficile far riemergere dai ricordi disseccati un frammento di vita! E come farlo, dal momento che si spengono, questi magri ricordi, e si compiono definitivamente con me? Vorrei salvarli. E mi sono ricordata che tu, amico mio fedele, spesso, in tutta tenerezza, mi chiedevi di raccontarti la mia vita del tempo in cui non mi conoscevi. Così scrivo per te. La nostra città ti è più cara di quanto non lo sia a me. E tu, con il cuore così colmo, comprenderai anche ciò che non arriverò a dire…Solo, una cosa mi tormenta. La mia dolce bambina che ha trascorso – è vero, come bimba di un anno – solo un anno di vita nella casa dei miei genitori, mi capirà?Lo spero.
Saint-Dié, 1939
disegno di Marc Chagall

Il banchetto di Pasqua
Là sopra, nella sala da pranzo, soffia forte un vento di festa. La tavola si allunga da un muro all’altro. Una bianca tavola di Pasqua, nella luce muta dei calici rossi. Una tovaglia sfavillante folgora lo sguardo. I candelabri brillano. Lunghe candele bianche, non ancora accese, palpitano nell’aria. Anche sul soffitto risplende lo sfavillio educato delle catene del lampadario. Mucchietti di pane azzimo sono avvolti nei tovaglioli, come in piccoli scialli di preghiera. Sulle sedie, si ergono enormi cuscini bianchi, ingombranti. Le rilegature splendenti delle Haggadàh brillano con le loro lettere d’oro[2].
Prima entra mamma, vestita con l’abito della festa. Il volto luminoso. Con i capelli raccolti, sembra più alta. Il vestito lungo, largo, costellato di pizzi, bottoni, nastri striscia sul pavimento di legno, fruscia, e riempie di sussurri l’intera stanza. Mamma va verso le candele, le accende, le circonda con le braccia: sembra che voglia benedire insieme tutta la tavola[3]. L’atmosfera si riscalda e si rischiara: sembra che siano accese non soltanto le sette candele di mamma ma contemporaneamente centinaia di altre candele. Accarezzano con la loro fiamma ardente lo sfavillio freddo della tovaglia, come se fossero state appena circondate dalle mani calde della mamma. Nella corte, anche a casa dei vicini le candele si sono accese. Si incrociano, le luci fioche delle candele di tutti, sbalordiscono con oro vivo la notte. Si riflettono sulle finestre, illuminano, giocano, bruciano sui piccoli fiori ricamati della tovaglia, alitano sulle bottiglie di vino impettite nell’attesa, ravvivano i calici rossi. Una favilla dopo l’altra lambisce la tavola bianca, non ancora del tutto pronta. La si prepara. Non ci si chiede se la tavola sopporterà tutte queste cose ammucchiate sopra…
“Hava, hai preparato le uova? Dov’è l’acqua salata?”. Mamma si affanna attorno alla tavola: vuole, con gli occhi, abbracciarla tutta. Manca qualche cosa? Cosa aggiungere? “Passami ancora un cuscino! Mi ero completamente dimenticata… che ci sarà un altro invitato. Infila delle nuove federe”. Distendiamo un nuovo paio di guanciali. Le sedie, come incinte, gemono, la pancia all’aria.
“Mamma, chi viene? Quanti siamo per il Sèder?”
“Ah! - fa con la mano - contate! E soprattutto per una festa!
Silenzio! Già rientrano dalla Sinagoga”.
Sentiamo il mormorio di una voce estranea: un altro invitato.
“Buona festa! Come state? Sono i vostri ragazzi? Hanno fatto bar-mitzvàh[4]?”.
Ciascuno riceve un pizzicotto sulle guance. Il primo invitato, un lontano parente di papà, è venditore ambulante nei villaggi circostanti. Sa che, per papà, un parente è sacro. Si è invitato da solo al banchetto di Pasqua. Si comporta come a casa sua. Canticchia un’aria, cammina in lungo e in largo, si soffia il naso in modo rumoroso, moraleggia, distribuisce consigli. Ad ogni nuovo invitato che entra, dà per primo un grande saluto.
Ora c’è tutto un brusio. Tutti aspettano papà. Aspettando, ci raccontiamo delle storie e stiamo a scherzare.
“Cosa studi adesso Bachinka? Sai già bene il russo? Hai bei voti?”. Le mie sorelle, i miei fratelli arrivati da lontano mi tormentano. Li contemplo come se fossero degli ospiti poco familiari. Durante tutto l’anno, non li vediamo. Uno studia all’estero. La sorella vive in un’altra città. Quest’anno viene con i suoi due bambini, che si arrampicano sulle gambe di tutti, soprattutto se sono lunghe, e supplicano di farli saltare. Tutti si rallegrano. Solo gli occhi di un giovane celibe sono tristi, pensosi. Guarda i ragazzini che giocano. Si ricorda che una volta aveva, anche lui, un padre, una madre, una casa sua. Si mette in disparte, in un angolo, come un ragazzino.
“Buona festa!” entrano e si mettono in riga tre piccoli soldati, tirati a lucido in onore della Pasqua. La baraonda li attira in mezzo alla stanza.
“Silenzio! Arriva nostro padre!”
Il tumulto si ferma di colpo.
Non riconosciamo subito papà. Un nuovo padre! Sulla porta s’impone un Re tutto bianco, vestito di bianco dalla testa ai piedi. Si perde nel suo largo levita[5] bianco. La seta scintilla, si frange in pieghe bianche. La grossa cintura le sostiene. Le maniche, come ali, pendono, lunghe e larghe, ricoprendo le mani, le dita. Una kippàh di seta bianca risplende sui capelli bianchi. Sotto questo biancore, Papà sembra ancora più imponente, più massiccio. Il suo volto è ancora più radioso. Da lui scaturisce come un vapore bianco. Basterebbe un piccolo movimento da parte di papà, e le sue maniche lo solleverebbero come ali. Contemplo il suo viso. Non è il Re, oggi?
“Buona festa!”
“Buona festa!”
Inizia il banchetto di Pasqua.

Papà è seduto a capotavola. Appoggiato ai due cuscini rigonfi, è seduto proprio come un Re su un trono. Dopo di lui, tutta la compagnia si lancia verso la tavola. Ci spingiamo, spostiamo le sedie, ci ammassiamo intorno alla tavola. Gli altri, sui cuscini tutto intorno, si siedono come sospesi per aria. Papà, per primo, toglie il tovagliolo dal piatto delle pietanze rituali e getta uno sguardo penetrante. Gli occhi di mamma si fissano sulla tavola. Possibile che sia stato dimenticato qualcosa?
Sotto il pane azzimo tutto giallo della Pasqua fuoriescono, come ciuffi di muschio di un vecchio tetto, ramoscelli di spezie, un mucchietto di rafano[6], un piccolo collo di pollo fritto, un uovo sodo. Gli altri scoprono i loro piatti: sono preparati come quello di papà.
“Aarke! Mi darai le tue erbe forti? Sì? - grida d’un tratto Abrachka da una parte all’altra della tavola, verso suo fratello maggiore”
“Zotico che non sei altro! – interviene l’altro fratello - Pensi solo a una cosa! Festa o non festa! Pensi sempre a mangiare!”
“E tu? Cos’hai da abbaiare come un cane? Chiedo soltanto delle erbe amare!...”.
“Sei pronto a rimpinzarti anche con il rafano! Cosa? Non ti conosciamo? Ha ha…”
“Silenzio! - papà li ferma - Cos’è questa fiera laggiù in fondo? Riempite i calici! Passate il vino agli ospiti!”
Bottiglie di vino passano di mano in mano. Se le contendono. Il vino frizzante macchia la tovaglia.
“Buon vino, eh! Vero?” - qualcuno ha già preso una sorsata - “Possa io avere una gioia simile a questo vino così dolce!”
“Hum… hum: e il calice del profeta Elia? “ Papà scuote la testa. E mamma aggiunge:
“Ecco, prendete da questa bottiglia di vino! È migliore!”
Una bottiglia s’inclina. Il calice alto, rosa d’Elia il Profeta, poco fa ancora silenziosa, pensosa, si riempie fino all’orlo.
Il vino è frizzante. L’aroma penetrante che sale dai calici fa girare la testa. All’improvviso, un vento sembra soffiare dai Libri dell’Esodo tutti aperti, dalle pagine appena sfogliate. Tutte le teste si chinano. Si sgranano le prime preghiere.
Io sono stretta nel mio angolo, tra mamma e papà. Con i cuscini di papà, è ancora più stretto. Da questi cuscini il calore sale, mi opprime il cuore. Ho la testa pesante per il vino. I cuscini mi attraggono a sé, mi invitano ad appoggiare il capo sulle morbide piume. Ma so che presto, dopo qualche preghiera, papà si chinerà su di me, come se non fossi io a porgergli le quattro domande, ma fosse lui…
Ecco che mi fa già segno…
“ Bene, bene… allora, le domande?”
D’un tratto, il silenzio. Tutti mi guardano. Nascondo il viso nella Haggadàh. Le lettere, la testa, girano insieme. Seguo col dito, e vorrei raddrizzare le righe! Trattengo il respiro. Sussulto al suono della mia stessa voce.
“Cos’ha di diverso questa notte da tutte le altre?”.
Papà mi suggerisce sottovoce. Mi sembra che, dall’altra parte della tavola, soffochino dal ridere. Mi confondo ancora di più. Proseguo a fatica da una riga all’altra. Mescolo le domande. Eppure le sapevo tutte a memoria. Avevo tanto da chiedere… Appena pronuncio l’ultima parola, esplode un grido… Tutti, liberati, si lanciano sull’Haggadàh.
La lunga tavolata parte, come se avesse le ruote. Ciascuno prega per conto suo, supera l’altro, si affretta dopo di lui, lo chiama, lo scuote con la sua voce. Le voci risuonano nelle finestre, salgono sui muri, risvegliano il ritratto del vecchio rabbino Schnehersohn, appeso al muro da tanti anni. Con i suoi occhi verdi, spia intorno, allunga l’orecchio verso ciascuno, come se volesse sentire tutto. Sull’altro muro, il rabbino Mendele, piccolo, vecchio, non può più starsene appeso in pace. Pensieroso, avvolto nella sua levita bianca e nella sua lunga barba, scende dal quadro come se lo avessimo chiamato con l’Haggadàh. I muri nudi prestano ascolto. Anche il soffitto è sceso, e ascolta il racconto dell’Esodo: si direbbe che ha bisogno di stare vicino a ogni parola. Pagina dopo pagina, le parole scorrono come la sabbia del deserto. Sono stanca al solo guardare tutti. Dove siamo arrivati? I miei fratelli, come una coppia di cavalli, spingono avanti. “Sciocca che sei! A che punto sei dunque? - tutto a un tratto si sente una parola non ebraica - Hai saltato delle pagine!“ E’ Mendel che grida contro Abrachka.
Chi va a ingannare? E dove ci affrettiamo? Ponticelli di lettere, di righe si levano, corrono lungo le scale, in alto, in basso. Mi perdo nella mia Haggadàh. Sfioro le sue pagine ingiallite. Qui, una macchia di vino, là, un pezzo di pane azzimo incrostato dell’anno scorso. Immediatamente, arrivo a una immagine disegnata: una tavola del banchetto di Pasqua, con dei visi emaciati. Mi si stringe il cuore. Eccole qui le nostre care nonne, i nostri cari nonni[7]: come sono sfibrati, prosciugati! Accarezzo, sfoglio ancora, giro una pagina dopo l’altra. Li cerco ovunque. Il pezzo di pane azzimo si sbriciola, si sparpaglia sull’Haggadàh. Sembra che la sabbia d’Egitto scricchioli sotto i piedi. Sussurro: “Eravamo schiavi…”. Le pagine fitte cominciano a gemere. Il vento del deserto giunge fino a noi. Le pallide ombre dell’immagine dipinta si avvicinano. Respirano dentro di noi. Appena una parola le sfiora, riversano su di noi il loro cuore, le loro sofferenze, il cammino faticoso dell’esilio attraverso il deserto, le soste e di nuovo il cammino. Giorni, notti, anni, senz’acqua, senza pane. Tutto questo avvolge l’anima, come la tela di una ragnatela. Ascolto i loro passi. Sudano, camminano lentamente. Le schiene ricurve. Le mie spalle si accasciano come se io stessa mi trascinassi nella sabbia profonda. La bocca diventa secca. E’ duro pronunciare le parole. Come dei pezzi di creta, incollano le labbra. Sussurro, mi chino. Vorrei penetrare nell’Haggadàh, sbucare nel luogo del lungo cammino. Ricongiungermi con ognuno, dir loro una parola, aiutare a portare qualcosa. D’improvviso, un lampo nella mia mente: è possibile che anche dei bambini abbiano camminato con loro? Hanno dovuto piangere, strillare… Dove siamo rimasti? Mi sembra che tutti si siano ingarbugliati nel testo. Non li raggiungerò mai. A che punto è papà? E’ meglio ascoltarlo. La sua voce è calma. Ogni parola, come un passo dietro l’altro, risuona sulla tavola. Papà cammina come su di un sentiero piano. Mi piacerebbe camminare con lui, passo dopo passo. Grazie a Dio, si è fermato un momento, per riprendere fiato.
“E bene, bene… i flagelli!” Fa segno con la mano di portare qualche cosa per buttare le gocce di vino[8].
“Acqua… Sangue…”
Per papà, questo suona come una campana[9]. Ogni flagello si ritira, s’inonda di una lunga goccia di vino, come se papà volesse allontanare da sé, il più lontano possibile, ogni maleficio. Svuota tutto il calice.
Mamma porta verso di sé il vaso; lentamente le sue piaghe[10] sgocciolano con il vino. La mette a disagio nominarle a voce troppo alta, e ha paura di macchiare la tovaglia. Tutti teniamo il bicchiere in mano, come se volessimo lanciare dei colpi, e ognuno di noi afferra il recipiente, e butta goccia dopo goccia: si direbbe che vogliamo coprire di sputi la faccia del nemico. Prendiamo di mira il centro: vogliamo far cadere le maledizioni proprio nel mezzo. Cadono, queste maledizioni, come delle pallottole. Lo ricevo per ultima: in esso, si agitano già tanti flagelli.
“Sangue… rane… insetti… peste… ecco, per te! Tieni, prendi!...”
Mi sembra di lanciare delle pietre. Verso, riverso tutto… Non posso frenare la mano. Il piccolo vaso di creta si tramuta in una testa del Faraone cattivo. Vorrei riversar su di lui tutto a un tratto tutti i flagelli , rompere contro di lui il mio calice, insanguinarlo di vino rosso…
“Cavallette… tenebre…. tieni, per te, tieni per le mie nonne, per i miei nonni perseguitati. Flagelli dei primogeniti… ecco, per te, per i neonati martirizzati…”
Sono spaventata io stessa dalle maledizioni, dalle macchie rosse sulla tovaglia, e getto veloce tutto il mio vino.

Tratto dal capitolo Il banchetto di Pasqua, nel vol. di Bella Chagall, di Luci accese (traduzione di Maddalena Cavalleri Gobbi)

Devo un ringraziamento a Lorenzo Gobbi, mio marito, che mi ha aiutato soprattutto nella realizzazione delle note, e non solo. Devo a lui la stesura del testo introduttivo.

[1] Le sue opere si trovano a Nizza, dove sorge un Museo di Stato a lui dedicato, a New York, a Parigi, a Gerusalemme e nelle più importanti gallerie del mondo.
[2] Ogni commensale, durante la cena di Pasqua, ha in mano il libretto del rito, cioè la Haggadàh. Haggadàh significa “racconto”, perché durante la cena viene raccontata tutta la storia della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto.
[3] Accendendo le candele, come prescrive il rito, la donna mormora una benedizione, e questo spiega il gesto con cui le sue mani quasi circondano le candele stesse. Solo la donna può accendere le candele di Pasqua e di Shabbàt. Gli uomini, mentre le donne preparano così la tavola e accendono le candele, sono in preghiera nella sinagoga.
[4] Bar-Mitzvàh (letteralmente “figlio del precetto”) è la cerimonia religiosa che segna l’ingresso di un ragazzo nel mondo degli adulti: per la prima volta, verso i 13-14 anni, il ragazzo legge la Scrittura nella Sinagoga, e da questo momento è considerato un adulto a tutti gli effetti, ed è obbligato all’osservanza dei precetti. Si tratta di una festa grande, ed è comprensibile che l’ospite chieda se i ragazzi hanno già festeggiato Bar-Mitzvàh: se l’hanno già celebrato, deve trattarli da adulti, se no può trattarli da bambini, come di fatto fa.
[5] Abito tipico degli ebrei dell’Est, nero o bianco.
[6] Pianta dal sapore simile alla senape, molto utilizzata come condimento piccante nei paesi dell’Est (fr. raifort).
[7] I libri dell’Haggadàh, ancora oggi, raffigurano spesso gli antichi ebrei nella schiavitù, nella celebrazione della prima Pasqua, nel viaggio attraverso il deserto: “nonni” e “nonne”, qui, sono gli avi, cioè gli ebrei che vissero l’Esodo.
[8] A questo punto della cena, un recipiente viene fatto girare (vaso o terrina o vassoio): ogni commensale, quando è il suo turno, butta nel recipiente gocce di vino, che ha preso con le dita dal proprio calice, e pronuncia le maledizioni contro gli egiziani buttando, appunto, le gocce che le rappresentano.
[9] Il suono delle campane, per gli ebrei, significava spesso l’arrivo di un pogròm, o comunque di un momento pericoloso: durante la festa cristiana, spesso i predicatori attizzavano il risentimento popolare contro gli ebrei, accusandoli di deicidio (specialmente a Pasqua e al venerdì santo), e il popolo andava ad assalire le case degli ebrei, massacrando gli abitanti (questi assalti venivano detti pogròm, in russo). In Russia e in Polonia, nella seconda metà dell’Ottocento e ai primi del Novecento, si verificò una impressionante serie di pogròm, che fecero molte vittime nell’indifferenza delle autorità; era, però, una realtà che si verificava spesso, soprattutto sotto Pasqua. Per gli ebrei dell’Est, dunque, il suono della campana aveva un che di sinistro e malaugurante.
[10] Le maledizioni consistono nelle “piaghe” o “flagelli” che Dio mandò contro gli Egiziani: sangue, peste, cavallette, rane, morte dei primogeniti…

domenica 11 novembre 2007

L’ORA DELLA MANO VUOTA

Ricordo un tempo, quando vivevo sola in via Lastre a Verona. Insegnavo francese dalle suore e trascorrevo le ore delle mie giornate a rimettere insieme pezzi della mia vita. Nella ricomposizione del mio mosaico, i libri hanno avuto un’importanza fondamentale. Un ascolto profondo. A casa, portavo solo libri di autori che avevano un timbro di scrittura sincero. Niente intellettualismi sterili e narcisistici: avevo bisogno di voci pure, pulite, che portassero un po’ di chiarezza nella mia vita: avevo bisogno di qualcuno che venisse a casa mia e che scostasse dal mio tavolo le cose che mi impedivano di vedere (giusto per citare un po’ Bobin, che a quel tempo, non conoscevo ancora!)
Era il 1995.
Molti anni più tardi, nel suo libro Francesco e l’infinitamente piccolo, ho ritrovato "l'ora della mano vuota".
Ne trascrivo qui alcune parti.
Il primo brano è tratto dal capitoletto Qualche parola piena d’ombra dove Francesco malato “si gira e rigira nella sua vita” perché sente che deve cambiare qualcosa.
Si gira e rigira nel letto. Si gira e rigira nella sua vita. Le lenzuola sono gualcite, sgradevoli al tatto, sfregano la pelle, le loro pieghe arrossano la carne. La vita è logora, meno piacevole da godere, sfrega l’anima, rovina il sogno. Non vi è nessuno con cui poterne parlare. Non vi è nessuno a cui confidare che si vorrebbe abbandonare questa vita per un’altra, e che non si sa come fare. Come dire ai vostri cari: il vostro amore mi ha fatto vivere, ora mi uccide? Come dire a quanti vi amano che non vi amano?
Due parole vi fanno venire la febbre. Due parole vi inchiodano al letto. Cambiare vita. Ecco la meta. E’ chiara, semplice. Ma la strada che conduce alla meta non la si vede. La malattia è l’assenza di una strada, è l’incertezza della via. Non si è di fronte a un dilemma, vi si è dentro. Siamo noi stessi il dilemma. Una nuova vita è ciò che si vorrebbe, ma la volontà, appartenendo alla vecchia vita, non ha forza alcuna. Si è come quei fanciulli che tendono una biglia nella mano sinistra e non lasciano la presa finché non son certi di avere in cambio una moneta nella mano destra: si vorrebbe una vita nuova, ma senza perdere la vecchia. Si vorrebbe non conoscere l’istante del passaggio, l’ora della mano vuota.
Ciò che vi rende malati è l’approssimarsi di una salute più grande della salute ordinaria, con essa incompatibile. Ma si continua a resistere. Tutto vi trattiene, la madre, gli amici, le giovani dame. Non la si ama più questa vita, ma almeno si sa di che è fatta. Se la si lascia, vi sarà un momento di cui non si saprà più niente. Ed è questo niente che vi spaventa. E’ questo niente che vi fa esitare, brancolare, balbettare, ed infine tornare alle vecchie strade.
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, p. 44)

Il secondo brano è tratto dal capitoletto intitolato “Guardami, me ne vado” dove Bobin ci narra il momento in cui Francesco decide di partire, di lasciare tutto. Sullo sfondo il Qohelet e la consapevolezza che il passaggio di un tempo e all’altro tempo, non può non passare dall’ora della mano vuota.
C’è un tempo in cui i genitori nutrono il fanciullo, e c’è un tempo in cui gli impediscono di nutrirsi. Il fanciullo è il solo a poter distinguere fra questi due tempi, il solo a trarne la logica conclusione: partire. Non lottare. Soprattutto, non lottare: partire. Nulla è più rischioso per un figlio che resistere al proprio padre: opporsi a qualcuno significa diventare un po’ come lui. I figli che si fortificano lottando col padre finiscono stranamente col somigliargli al tramonto della loro esistenza.
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, p. 53)

Nel lontano 1995, ho scritto anch’io il mio Qohèlet.
(Lorenzo ha voluto riportarlo nel nostro libretto di nozze che abbiamo donato come cadeau agli amici). Lo trascrivo qui :
C’è un tempo per sognare
e un tempo per aprire gli occhi,
un tempo per giocare
e un tempo per crescere.
Un tempo per essere amati
e un tempo per rimanere soli,
un tempo per sentirsi soli
e un tempo per desiderare di essere soli
un tempo per fuggire da se stessi
e un tempo per abbracciare se stessi,
un tempo per non vedere l’altro
e un tempo per riconoscerlo.
Un tempo per calpestare i segni
e un tempo per raccoglierli,
un tempo per sfuggire a Dio
e un tempo per lasciarsi amare da Dio.
C’è un tempo per nascere
e un tempo per morire,
dove morire vuol dire la vita
e dove la vita vuol dire eternità

sabato 10 novembre 2007

"QUANDO SCRIVO SULLE MADRI E' DI TE CHE SCRIVO"



Il libro di Francesco e l’infinitamente piccolo, è dedicato a Ghislaine Marion, amica di Christian Bobin. Quando il libro viene pubblicato nel 92, Ghislaine non si è ancora ammalata: morirà improvvisamente tre anni più tardi, il 12 agosto 1995, per un aneurisma al cervello. Bobin continuerà a scrivere su di lei. Un anno dopo uscirà presso Gallimard, La plus que vive, un ritratto di Ghislaine scritto con l’inchiostro del dolore, mentre nel 97, egli potrà dare alle stampe il suo diario (Autoportrait au radiateur Gallimard, 97) che inizia il 6 aprile 1996 e si conclude il 21 marzo 1997.
Mi sono sempre chiesta che tipo di rapporto Christian Bobin avesse (e abbia ancora) con Ghislaine. Ho capito, e mi sono convinta leggendolo in tutti questi anni, che non c’è nulla di nascosto se non il pudore. Bobin è limpido, è quello che scrive. A volte – soprattutto in alcuni libri - racconta il suo grande amore per questa donna. Si mette in ascolto. Impara da lei. La osserva. Esce da se stesso per accoglierla. Un cammino interiore che lo porta a crescere giorno per giorno. Un esercizio di bene. Quotidiano e profondo. Penso che egli abbia amato Ghislaine con tutto se stesso, senza chiedere di essere “contraccambiato”. Ghislaine ha avuto tre figli (Hélène, Gaël, Clémence), è stata sposata due volte, ha avuto una vita molto intensa e movimentata. Insegnante di lettere, amica di vecchia data. Si sono conosciuti nel lontano 1979, a casa del suo primo marito quando Bobin aveva 28 anni: da allora, non l’ha più abbandonata.
Ghislaine oggi abita nella vita delle persone che ha amato e che l’hanno amata, ma anche nelle pagine di alcuni libri; così un po’ di lei, del suo amore e dell’amore del suo Christian giunge fino a noi, restituendoci uno sguardo rinnovato verso le persone che amiamo, che abbiamo amato e che non smetteremo mai di amare.
Quando scrivo sulle madri, nei miei libri, e scrivo quasi sempre di loro, è di te che scrivo. Sei una madre perfetta, e preciso: una madre perfetta è quella che come te, dona il suo amore senza calcolo, senza aspettarsi il contraccambio, e soprattutto vive solo per i suoi figli, vive anche altrove, vive altri amori, è pienamente presente in ogni gesto o in ogni parola, allô mon doudou*, ed è immediatamente altrove, o se vogliamo, le madri migliori sono quelle che il mondo chiama cattive madri, quelle che pensano solo ai loro figli, o se vogliamo ancora, le madre migliori sono quelle che non dimenticano di essere anche, con altrettanta intensità, donne amanti, figlie, non so come far capire una cosa così semplice, non so come spiegare l’evidenza, ciò che sono le madri migliori, una sola frase può dirlo e si addice all’insieme della tua vita così come all’arresto della tua morte: si danno e se ne vanno »
(*Mon doudou è l’espressione con la quale Ghislaine chiamava sua madre, quando le telefonava tutte le sere verso le otto e mezza)
(Più viva che mai, San Paolo 1998, pp. 16-17)

Non doveva esser facile averti per madre. Tutte le madri sono impossibili – sia che amino troppo sia che amino abbastanza. In materia non esiste una giusta misura. Hai dato tutto ai tuoi figli. Hai persino dato armi per resistere alla tua follia d’amore, per trovare quello spazio, in se stessi, che era loro necessario, dove nessuno ha il diritto di entrare – e soprattutto una madre.
(Più viva che mai, San Paolo 1998 p. 40)
Ma chi è Ghislaine per Christian Bobin?
Non vorrei sentirmi una “guardona”, ma mi sono spesso interrogata sulla natura del loro rapporto e mi sono convinta che entrambi abbiano vissuto un’amicizia profonda all’insegna della gratuità più totale. Resto sulla soglia, non voglio indagare e nemmeno mi interessa di per sé. Scrivo e mi soffermo su questo perché Ghislaine è spesso presente nelle pagine di Bobin: una “presenza pura”, umana e dolce ma non idealizzata, anzi, molto, molto umana.
[…] la tua figlia maggiore di quindici anni, Hèlène, sai come si è a quell’età e come si va dritti all’essenziale, mi dice durante un viaggio quanto trova deprimenti, convenzionali, le lapidi sui sepolcri, e mi confida un suo desiderio, mettere un’iscrizione: “A mia madre che mi faceva spesso arrabbiare” – e scoppiamo a ridere, io e lei, naturalmente non è possibile, il marmista non accetterebbe un ordine del genere e la gente inorridirebbe a leggere una cosa così, ma so che tu ti rallegreresti per questa parola d’amore, non abbiamo sempre bisogno di parole dell’amore per parlare dell’amore, abbiamo bisogno di gravità e leggerezza, non del serioso, soprattutto non del serioso, gravità e leggerezza, lacrime e risa.
(La plus que vive, Gallimard 1996, p.47
Più viva che mai
, San Paolo 1998 p.29-30)
Tre giorni prima di morire, sei ancora a Saint-Ondras, mi proponi una passeggiata fino al ponte rosso. Quel ponte è a trecento metri dalla casa. Di rosso ha solo il nome. E’ una passeggiata che fai spesso quando hai poco tempo. Camminando ti informo che ho intenzione di scrivere un libro su di te, tu sorridi, io ti dico che ho già la prima frase: “Se benedico questa vita, è perché tu ci sei”. Ti fermi, mi chiedi: e se io non ci fossi più, in questa vita, cosa scriveresti? La risposta mi viene prima che ci rifletta e la lascio venire senza controllo, non mi soddisfa, ma non importa: per principio lascio le cose venire in disordine nella parola, così come sono. Ti dico: se un giorno non fossi più in questa vita continuerei a benedirla e ad amarla. Allora scoppi a ridere e mi dici, radiosa: va benissimo così, è proprio meglio così, promettimi di scrivere la frase per intero quando farai questo libro, altrimenti farai della letteratura e non bisogna mai fare della letteratura, bisogna scrivere e non è la stessa cosa, promettimelo. Te lo prometto e parliamo subito d’altro – la morte che aveva appena attraversato l’aria sembrava così lontana che l’avevamo già dimenticata.
(Più viva che mai, San Paolo 1998, p.68)

Più di dieci anni dopo, Bobin rimarrà fedele a questa promessa. In Une bibliothèque de nuages, (Lettres vives 2006), vive e scrive una profonda riconciliazione con la morte. Oltre a Ghislaine ha perso il padre e altri cari amici, tra cui lo scrittore, cui era molto legato, Jean Grosjean. La sua libreria si è rarefatta. Si è lasciato attraversare dal dolore senza porre alcuna riserva.
Ghislaine raggiungeva il mio cuore con mille primavere, ma lo ha raggiunto nel modo più puro quando vidi arrivare la sua bara davanti alla chiesa spoglia di Saint-Ondras. Ogni bara è quella di un bambino.
(Une bibliothèque de nuages, Lettres vives p. 36)
Un giorno, senza pensare a nulla, guardai il tiglio fiammeggiante davanti alla finestra e appresi che G. aveva smesso di morire. Erano trascorsi tre anni dal funerale. Gli alberi sono dei postini meravigliosi.
(Une bibliothèque de nuages, Lettres vives p. 29)
La morte e la vita sono così annodate l’una all’altra che non capisco perché si siano inventate due parole per dire una sola accecante vertigine.
(Une bibliothèque de nuages, Lettres vives p. 8)

giovedì 8 novembre 2007

IL GENIO MATERNO HA LE SUE ECLISSI (Christian Bobin, Francesco e l'infinitamente piccolo)


Nei dodici capitoletti che compongono Francesco e l’infinitamente piccolo, Bobin ripercorre la vita di Francesco d’Assisi, nelle sue diverse stagioni. Non ci presenta però una “vera” biografia, ma una storia qualunque: sin dalla prima pagina, camminiamo insieme a Francesco, viviamo con lui, lo vediamo crescere e ci sembra un bambino come tanti. Non un santino o un’icona, o un simbolo; ma un bimbo in carne ed ossa a cui Bobin vorrebbe restituire l’infanzia, che i suoi stessi biografi gli hanno rubato. Lo fa a modo suo, coinvolgendo il lettore in una meditazione sui tanti temi a lui cari: la vita, la morte, l’infanzia, le donne, le madri, ma non solo.
Nel terzo capitoletto, intitolato Dolcezza del nulla, si sofferma sull’infanzia di Francesco; ne evoca la madre che, con le sue eclissi, sembra chiamare a sé tutte le madri del mondo. Le donne, madri amanti figlie o, più semplicemente, persone, sono una presenza costante – potremmo dire “pura” – nell’opera di Bobin. Le troviamo disseminate in tutti i suoi scritti, e anche nella sua vita: la madre, l’amica Ghislaine con le figlie, semplici amiche, conoscenti oppure solo passanti. Tutte presenze reali e concrete. La sua capacità di osservazione è estrema. L’attenzione che vi pone è la sua forza. Con mano sapiente, egli trasfigura tutte queste donne reali e concrete in vere e proprie icone. Non per celebrarle in modo sterile o astratto, o addirittura critico. Tutt’altro. Lo fa per restituire loro tutta la bellezza del mondo perché il suo scrivere è sempre un atto di amore alla vita. Incontriamo così donne cariche di umanità, e quindi di imperfezione, di fragilità, in una parola: di amore. Vicino alle madri crescono i figli, e Bobin è stato un figlio molto amato. Da lui trabocca un sentimento di gratitudine verso la vita. E soprattutto, verso sua madre. Il pudore nel raccontarsi è estremo e, a mio avviso, egli è straordinario e coinvolgente proprio per questo: per la sua capacità di coniugare, una prosa molto raffinata, con un calore umano e una dolcezza che sanno donare al lettore uno sguardo puro sia nei confronti del mondo che della propria esistenza.
Trascrivo un breve brano tratto da questo capitoletto, dove incontriamo anche Marta e Maria: “le madri – scrive Bobin – sono l’una e l’altra”.
« Bambini del ventesimo secolo, i vostri genitori sono stanchi. Non credono più in niente. Vi domandano di portarli sulle spalle, di dar loro coraggio e forza. Bambini dei tempi moderni, siete dei re in un deserto. Bambini del tredicesimo secolo vi si accorda poco peso. Siete come una torma talora scossa da brividi di febbre, decimata dalle guerre, dalle carestie o dalla peste. Vi si parla molto poco nei primi anni. Vi si guarda appena, con lo sguardo intenerito che si accorda ai cani di fattoria coi quali giocate nella polvere dei cortili. Piccoli selvaggi del tredicesimo secolo, crescete inosservati sotto lo sguardo di tutti, confusi coi servi nelle scuderie e con le galline nella sala grande. Chi ha visto il piccolo Francesco crescere? A parte Dio, nessuno o quasi. Non il padre, troppo occupato dai suoi viaggi, dal suo denaro e dalle sue stoffe. La madre, un poco. Così poco: il genio materno ha le sue eclissi. C’è quella che veglia su colui che ama, senza impedirgli di prendere la sua strada. E c’è quella che si tormenta per colui che ama, e cerca di modificarne il cammino. C’è Marta e c’è Maria, le due sorelle incontrate da Gesù che passava. Marta, preoccupata dell’ordine e del cibo, che si affanna per la cucina, persa fra rumori di piatti e d’acqua che bolle. E Maria, il grembiule buttato sotto una panca, Maria seduta per terra, le gambe ripiegate di sotto come le ali di un uccello che riposa, viso aperto, mani vuote, Maria tutta presa da quest’amore senza il quale ogni ordine è triste, ogni cibo insipido. Marta e Maria. L’una persa in mille cose, l’altra raccolta. L’una infaticabile, l’altra quieta. Le madri sono l’una e l’altra, spesso contemporaneamente. Il pensiero del bambino le acceca e le illumina al tempo stesso. Guardano la carne della propria carne. Vedono il fanciullo vivere, mai crescere. Vedono il fanciullo nell’eternità della sua età, non vedono mai il passaggio da un’età all’altra, da un’eternità alla successiva. Un giorno si voltano indietro, osservano stupite quel baldo giovane che entra in casa, quell’uomo impacciato dalla sua stessa forza, non rendendosi più conto di come tanta forza e tanta goffaggine siano potute venire da loro, non comprendendo più nulla: il loro fanciullo è cresciuto, ma il loro cuore non è invecchiato e arde, come ai primi dolori del parto…
(Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo 1994, pp. 28-29 – Le Très- Bas, Gallimard, 1992, p. 34)